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 2009  agosto 01 Sabato calendario

IN UN DISCO TUTTA LA MIA VITA


la vita ha un grande sense of humour: siamo noi che spesso non capiamo la battuta. Non subito, almeno. Adesso che mi chiedono di spiegare perché, secondo me, fu importante Abbey Road, beh, solo adesso capisco perché quarant’anni fa un adolescente, finalmente arrivato in una Londra troppo sognata per essere all’altezza delle aspettative, decise di comperare – primo disco acquistato nella Terra Promessa dei Dischi – proprio Abbey Road. L’adolescente non era guidato da uno spiccato gusto critico: e mai l’avrebbe sfiorato l’eretico pensiero che l’appena pubblicato Let It Be, per quanto opera dei Beatles, potesse essere un pacco pazzesco, mentre Abbey Road segnava l’apoteosi della band ormai defunta e dell’intera storia del pop. Tra l’altro, l’adolescente non era neppure convinto che la band fosse defunta e ancor meno immaginava che anche il pop non stesse troppo bene. Eppure, in quella prima vacanza inglese, la vita indusse l’adolescente che non sapeva nulla ad acquistare proprio Abbey Road, e insieme Lizard dei King Crimson. Album, questo, che conteneva una canzone intitolata Happy Family, che cominciava così: «Happy family, one hand clap, four went by and none came back». Era – altro fatto che l’adolescente ignorava – un apologo sui Beatles, la «famiglia felice» di cui quattro passarono, ma nessuno ritornò. Appunto. Bella botta di sense of humour, da parte della vita: i King Crimson erano già il dopo-Beatles, il dopo-pop, erano già gli Anni Settanta in cui la musica degenerò, magniloquente e autoreferenziale, finché il punk non piombò a cancellare tutto e tutti, la gioia e il dolore, i geni e i truffatori. L’adolescente, al solito, non capì nulla. Comunque, acquistò Abbey Road: e furono i soldi meglio spesi di quella vacanza. Abbey Road è davvero l’album finale. Definitivo e finale. Capolavoro e requiem. Chiude la storia dei Beatles, chiude la storia del pop – quello importante – e chiude soprattutto la storia di una generazione convinta di cambiare il mondo, finché – come al solito – il mondo non cambiò anche quella generazione. L’estate dell’amore era già un ricordo, l’eroina aveva scacciato la marijuana e il simbolo del Peace&Love trasmutava pian piano in quello della P38. Eravamo sull’orlo dell’abisso, giovani vitali dentro una fornace. Ci attendevano gli Anni di Piombo e il glam rock, il riflusso e gli Anni Ottanta e poi i Novanta e il Duemila, e niente sarebbe stato più come prima. E prima di scomparire i dischi sarebbero stati sempre più costosi e sempre più inutili. Come le nostre esistenze. Lì stava il sense of humour: l’adolescente ignorante fu indotto a comperare Abbey Road non perché era un capolavoro epocale, ma perché un giorno, ormai vecchio ma sempre ignorante, potesse scrivere quest’articolo, contemplando con sgomento e paura gli infiniti anni consumati aspettando i nuovi Beatles, e vedendo scomparire quelli vecchi, e con essi ogni speranza di un tempo speciale. Finché, con noi, non si dissolverà nel vento anche il ricordo di quella fotografia.