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 2009  agosto 02 Domenica calendario

A che servono le riserve auree? Nel film «Goldfinger» (1964), il primo grande successo di incassi dei film di 007, Sean Connery nelle vesti di James Bond riusciva a evitare che una bomba atomica esplodesse a Fort Knox e rendesse mortalmente radioattive, dunque inutilizzabili, le riserve auree degli Stati Uniti

A che servono le riserve auree? Nel film «Goldfinger» (1964), il primo grande successo di incassi dei film di 007, Sean Connery nelle vesti di James Bond riusciva a evitare che una bomba atomica esplodesse a Fort Knox e rendesse mortalmente radioattive, dunque inutilizzabili, le riserve auree degli Stati Uniti. Ne sarebbe seguita una crisi di fiducia nel dollaro, capace di minare il predominio americano nel mondo. A quel tempo, nel «gold-dollar standard» instaurato a Bretton Woods, la moneta statunitense poteva essere liberamente convertita in oro a un prezzo fisso, 35 dollari per oncia. Sette anni dopo, nel 1971, ci pensò il presidente Richard Nixon, oberato dalle spese per la guerra in Vietnam, a spezzare questo legame fisso; e dette via libera all’inflazione. A tutt’oggi le riserve di Fort Knox restano lì, a tutela della solidità del dollaro seppur non più di un valore fisso del dollaro in termini di oro. Il metallo prezioso tenuto nelle casseforti serve a segnalare al mondo che la credibilità di quei pezzi di carta verde non dipende solo dalle politiche più o meno condivise della casa Bianca e della Federal Reserve, ma anche dal concreto appoggio di quel metallo dal valore indiscutibile. Lo stesso vale per l’Unione monetaria europea, i cui 16 Stati membri hanno messo in comune le loro riserve di oro e di valute a garanzia della stabilità dell’euro. Fin troppe ne hanno, disse subito qualcuno, perché l’unione fa la forza, e a presidio di una moneta unica serve accantonare meno risorse che per la somma di molte monete deboli. La Banca d’Italia di oro ne ha parecchio, nel confronto internazionale. Lo accumulò soprattutto negli anni del miracolo economico, quando l’Italia esportava sempre più e consumava poco, perché i salari erano bassi (come la Cina di adesso). Sembra una quantità immensa, 2.452 tonnellate, ma bisogna tener presente che l’oro è pesantissimo. A contenerla tutta non occorre più spazio di quello che c’è nella cantina di un normale condominio. Non è nemmeno tutto custodito nello stesso posto: c’è il caveau vecchio di Via Nazionale 91, quello nuovo di Vermicino (tra Roma e Frascati), un’altra quota è a New York presso la Federal Reserve, un’altra ancora a Basilea presso la Bri. Il peso standard utilizzato nelle transazioni internazionali è attualmente di 12,5 chilogrammi per ogni lingotto, ma la Banca d’Italia ne conserva da 14, 16, fino ad arrivare ad una «magnum» da 17 chili, con punzoni e simboli stampigliati (come le svastiche naziste) che, attraverso l’oro, consentono di ripercorrere la storia dell’ultimo secolo. Si era molto discusso, negli anni scorsi, se tenere nei forzieri tutto quel metallo; se non si trattasse ormai di una tradizione di scarso significato. Diversi governi hanno avuto la tentazione, in diversi paesi, di utilizzarne una parte a proprio vantaggio. Quando l’idea venne in testa a Romano Prodi, esattamente due anni fa, il centro-destra gridò al saccheggio. «L’attacco alle riserve auree mette a rischio equilibri primari del sistema economico. Il solo parlarne genera danni di sostanza e di immagine. Siamo alla rapina di Stato. E’ una scelta che non passerà, né ora né mai» disse per esempio Maurizio Gasparri il 9 agosto 2007. Per una curiosa coincidenza, proprio il 9 agosto 2007 fu il giorno in cui cominciò a manifestarsi la crisi che oggi attanaglia tutte le economie del pianeta. Per contrastarla le banche centrali hanno dovuto compiere mosse ardite prima impensabili, in parte anche assumersi dei rischi. I loro bilanci si sono gonfiati. In un momento come questo, la vecchia tradizione di tenere l’oro in cassaforte appare forse meno assurda di qualche anno fa. Nei governi però la tentazione resta. «Ah, la magia dell’oro! Ha sempre esercitato un fascino misterico, dalla Mesopotamia ai Nibelunghi, da Goethe alla Bce» disse Giulio Tremonti, in una intervista dell’11 agosto 2007, deprecando i progetti di Prodi.