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 2009  agosto 01 Sabato calendario

QUEI MAESTRI DELLA VERGOGNA


Togliete a uno scrittore la ver­gogna che prova per sé e per la propria condizione e cancellerete lo scrittore. Sa­rà mica per questo che un gigante co­me Proust evita ogni vittimismo ebraico e omosessuale. No, non c’è ombra di Jewish-pride e di Gay-pride nel fatato mondo della Recherche.

Forse perché Proust è così intelligente da intuire che tali orgogli vanno coltivati, per così dire, implicitamente. Sulla pagina è meglio nascondere o addirittura flagellare l’ebreo e l’omosessuale che porti in te. Una scelta moralmente ambigua, umana­mente vigliacca, resa ancor più in­comprensibile dall’empatico fervore con cui Proust da ragazzo aveva se­guito l’ affaire Dreyfus e il caso Oscar Wilde. Una scelta che André Gide gli rimproverò aspramente. Ma, allo stesso tempo, una scelta dal clamoro­so e impareggiabile impatto estetico. Che posso farci se nella scala del buon gusto letterario l’orgoglio ebrai­co- omosessuale non funziona? Se ar­tisticamente parlando rimpiango l’ebraismo e l’omosessualità vec­chio- stampo? Se trovo infinitamente più commovente il giudaismo tragi­co di Kafka e Schulz rispetto a quello postmoderno e esibizionista della no­stra epoca (in cui, tra l’altro, mi capi­ta di indulgere)? E se alla riscossa gay di alcuni eccellenti scrittori del Se­condo Dopoguerra preferisco l’omo­sessualità presunta, non vissuta e drammaticamente dissimulata di Henry James, Thomas Mann, Carlo Emilio Gadda, solo per fare gli esem­pi più eminenti? Mica è colpa mia se la salutare e civile emancipazione dei costumi non sempre equivale a un progresso artistico.

Ebraismo e omosessualità insom­ma. Connubio eccitante, e gran brut­to affare!

Su cui mi arrovellavo leggendo un piccolo romanzo di qualche anno fa, intitolato Il mio amato , dello scritto­re israeliano Yehoshua Bar-Yosef, mi­sericordiosamente ripescato e man­dato in libreria dall’intrepida casa editrice di Firenze La Giuntina.

La scena del romanzo si svolge a Meah Shearim, il quartiere di Gerusa­lemme pittorescamente sovraffolla­to di ebrei ortodossi. Un posto che ti fa l’effetto di un film in costume: un reperto archeologico della vecchia Europa Orientale incastonato nel pol­veroso ventre di uno dei Paesi più contraddittoriamente all’avanguar­dia del pianeta. lì che vive Asherke, protagonista-narratore di questa sto­ria. Un pover’uomo che per campare fa lo scriba.

Sebbene il ritratto che Asherke of­fre di sé sia di schietta marca dostoe­vskiana, c’è una nota asettica nella sua voce che ricorda Mersault (il cele­bre straniero di Camus).

«Da che ho raggiunto l’età della ra­gione, in me alberga un rancore mi­sto a compassione per papà, che si umilia davanti a tutti». Con la madre è ancora più caustico: «Per lei prova­vo ribrezzo e paura». Per non dire del commento sulla prima notte di noz­ze: «C’era un dettaglio che m’infasti­diva: l’odore delle sue secrezioni». E del rapporto con i due figli: «La verità è che, a causa della doppiezza e delle falsità della mia vita si è creato un abisso invisibile tra me e i miei figli». A quali doppiezze, a quali falsità, a quali abissi allude?

Beh, diciamo che la comunità in cui Asherke è intrappolato sin dalla nascita – che ha fatto dell’anacroni­stico decoro e dell’immutabilità dei costumi una specie di vessillo – po­trebbe frantumarsi venendo a sapere che l’ammirato scriba è ateo (onnivo­ro lettore di libri proibiti), e pedera­sta.

Bar-Yosef è chirurgico nel mostrar­ci la vita di Meah Shearim in cui la religione nel caso migliore è prassi e routine. E nel peggiore uno snervato esibizionista estetismo. Ma, allo stes­so tempo, tale ipocrisia fondamenta­lista offre a questi ortodossi la merce più preziosa in commercio, preclusa alla maggior parte di noi: l’illusione salvifica che la vita abbia un senso. E che tale senso si manifesti nell’adem­pimento di certe regole pratiche, as­sai care al Padreterno.

Ecco perché scoprirsi ateo lo la­scia attonito ma non così sconvolto. E va bene, Dio non c’è, ma le regole da Lui impartite, beh quelle resisto­no, basta solo rispettarle. Devastan­te, invece, si mostra la tardiva rivela­zione della propria inclinazione ses­suale. Desiderare ragazzini a Meah Shearim è una mostruosità inaccetta­bile persino per il nostro scriba. Il quale, sebbene provvisto dell’apertu­ra mentale dei miscredenti, è travol­to dal senso del peccato in lui miraco­losamente sopravvissuto alla scom­parsa di Dio. (Aveva ragione Baudelai­re: la religione ti condiziona soprat­tutto quando non credi). «Mi sento come afflitto da una lebbra invisibi­le » confessa Asherke quando scopre di desiderare il fratello quattordicen­ne della moglie con una carnalità scorticante e disperata.

E insomma eccoci al punto di par­tenza. Ancora ebraismo e omosessua­lità. Per una volta non alleati. Non due facce di una stessa perversione morale, né vittime di un analogo pre­giudizio. Stavolta l’ebraismo è la Leg­ge e l’omosessualità la più orrenda in­frazione alla Legge. Il conflitto è bibli­camente insanabile. E Asherke lo sa e lo accetta come tale: «Mi piace pen­sare all’oggetto del mio amore e non meno mi piace pensare agli ostacoli posti lungo il cammino: e più gli osta­coli mi fanno disperare più profon­do diventa il piacere dei tormenti e più acuto il senso della punizione che mi infliggo». Insomma la sua ri­sposta è la sola che gli hanno inse­gnato: il misticismo. E la cosa genia­le di questo piccolo romanzo è che Dio si manifesta sotto forma di una sublime castissima pederastia men­tre la religione viene relegata al ruo­lo del prosaico annichilente ostacolo indispensabile a ogni vera tragedia. Quelle tragedie che grazie a Dio (o grazie al demonio?) la nostra epoca ha abolito.