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 2009  luglio 30 Giovedì calendario

ERMANNO OLMI

«Il sasso lanciato con Rigoni Stern: abiteremo lì»-

Il regista: Asiago e il mio Manzoni

Siamo nel 1959. Ermanno Olmi è ad Asiago, sta camminando al fianco di Rigoni Stern. Olmi è lì, da Milano, per lavorare alla sce­neggiatura del «Sergente nella ne­ve ». A un certo punto, dal basso di una collinetta, sopra un denso strato di nebbia si apre un squarcio di luce, un lucore come d’incanto. Olmi alza gli occhi, poi raccoglie un sasso dal selciato, lo tira verso l’alto e lo lascia cadere poco più in là, dicendo: «Se un giorno mi sposerò e avrò figli, fa­rò la casa lì». Anche Rigoni si china a prendere una pietra, la butta a pochi metri dalla prima e dice: « Vegno an­ca mì, in piassa massa confusiòn ». In piazza, ad Asiago, dove abitava allora lo scrittore, c’era troppa confusione. Promessa mantenuta. Fino all’anno scorso, Ermanno e Mario abitavano a pochi metri di distanza. Rigoni Stern non c’è più da un anno e Olmi è rimasto qui, con sua moglie Loredana, in questa grande casa lungo via Val Giardini, sulla collina, dove il legno – dei pavimenti, dei soffitti, delle librerie, dei mobili antichi e dei soppalchi – prevale su tutto. Certo, a rigore, è stata anche questa una svolta, nella vita del regista, nato a Bergamo da una madre di famiglia contadina e da un padre ferroviere, ben presto trasferitosi alla Bovisa, periferia povera (allora) di Milano.

Una vita di grandi e piccole svolte. Quella che oggi gli sta più a cuore è l’incontro con Lucia Mondella e Renzo Tramaglino, e non solo perché il regista dell’«Albero degli zoccoli» riceverà in ottobre il Premio alla carriera Alessandro Manzoni. Ci sono troppe suggestioni che emanano dai «Promessi sposi» per un bergamasco come lui che da ragazzo frequentò le medie dai salesiani a Milano «più ai giardini pubblici che a scuola »: «Fu lì, all’ultimo anno, che mi toccò Manzoni, ma quando la scelta non è dettata dalla curiosità autentica, rischi di rovinare l’approccio». Però. C’è un però: «Certe pagine non le ho mai dimenticate». Si potrebbe persino fermare tutto, cinematografi­camente, a una scena: è l’addio di Lu­cia ai monti del Lago di Como. « una romanza: più poesia che prosa, come se lì Manzoni avesse covato una metrica e una scansione lirica. Quel brano che eravamo costretti a imparare a memoria mi è sempre ri­masto nell’orecchio e nella mente co­me fosse Verdi. Lucia vede il profilo dei suoi monti come il profilo delle persone amate. Solo ora mi rendo conto che il luogo della nascita fa parte di noi stessi, un paesaggio che ti porterai dentro per tutto il tempo in cui ne starai lontano. Ecco, Lucia, nella sua dolorosissima partenza, sa che quando tornerà lo ritroverà in­tatto, parte comunque con una spe­ranza. Oggi è diverso: questa speran­za non c’è più, se torni nei luoghi del­la tua nascita li ritroverai sfigurati, non li riconoscerai».

I luoghi dell’infanzia, per Olmi, so­no appunto da parte materna la cam­pagna bergamasca e poi, dai cinque anni in poi, quelli della Bovisa: «Io ricordavo la casa, il muro della ferro­via, la strada, i compagni: era quello il mio profilo dei monti. Sono parti­to nel pieno della guerra, con i bom­bardamenti su Milano, quando i figli dei dipendenti Edison venivano sfol­lati dalle città a rischio. Sono tornato nei primi anni ”60 e quel paesaggio che avevo lasciato era sfigurato non solo dalle macerie della guerra. Sem­plicemente non c’era più niente: il mio luogo di nascita mi è stato tol­to ». L’addio di Lucia, sofferto e però pieno di speranza, appartiene a un’epoca perduta: «Oggi non c’è più il conforto di un ri­torno. Dunque, quel che mi chiedo, partendo dal passo di Manzoni, è que­sto: è meglio il dolo­re di Lucia o la no­stra solitudine senza speranza? Ci so­no poi elementi che non sono cam­biati dal tempo di Renzo e Lucia a og­gi: per esempio, la prepotenza dei po­tenti, i motivi di ingiustizia e di con­flitto che si perpetuano anche in un contesto del tutto mutato. La peste è sempre lì. Ho appena finito di legge­re il nuovo libro di Corrado Staja­no... ». Olmi parla della «Città degli untori» (uscito da Garzanti), un viag­gio attraverso il male oscuro che am­morba Milano, dal Seicento ai nostri giorni: «Leggendolo si capisce come la cattiveria sia sempre stata poco no­bile, ma oggi è ancora più ignobile che in passato: poi vengono fuori al­cuni fra Cristofori, come Ambrosoli, esempi di santa eroicità, anche laica, che spiccano su tutti, ma a volte fini­scono per essere le vittime designa­te ». La peste, gli untori di ieri e di og­gi... «Un tempo la peste era un’epide­mia naturale, oggi abbiamo flagelli e minacce apocalittiche come l’Aids o la Sars, ma bene o male possiamo op­porvi le nostre conoscenze scientifi­che. Alla pestilenza dell’anima che è la solitudine diffusa, invece, non c’è rimedio. Mentre i personaggi di don Lisander ad ogni passo facevano ri­corso alla fiducia in Dio, alla Provvi­denza, alla religione come pratica di vita e come utopia di salvezza, oggi la salvezza è in quel che ti propone la televisione: anziché dire il rosario, la sera ci si lascia cullare da un para­diso che è più a portata di mano di quello invocato nelle preghiere, nel­le processioni oppure cantato nei co­ri di Chiesa: il Grande fratello, la lot­teria... Più che chiedere una grazia, si compra un biglietto del Superena­lotto. Questa è solitudine, un’illusio­ne di speranza».

Il capolavoro di Manzoni come ri­velazione di un cambiamento antro­pologico e delle coscienze: «La gene­razione di quelli che come me hanno vissuto in una fascia sociale molto prossima alla dura povertà ha già dentro la cultura manzoniana, anche senza saperlo. Dunque, leggere ’I promessi sposi’ è come mettere a fuoco un’immagine che già avevi dentro. In Manzoni c’è una sonorità dello spirito che mi ha aiutato a capi­re chi ero e cosa siamo diventati». Dopo la scuola media, la seconda let­tura del romanzo per Olmi è piutto­sto tarda. Siamo nel ”76, nube tossi­ca di Seveso: «Pensai di fare un film su quella pestilenza non più provoca­ta dalla natura, ma dalla manipola­zione umana, e così rilessi Manzo­ni ». Ne venne fuori la sensazione di un impianto drammaturgico, quasi cinematografico: «Se dovessi dire un autore che somi­glia a Manzoni, di­rei Simenon: una macchina perfetta di drammaturgia poliziesca. Da buon brianzolo, Manzoni ha una sensibilità anche pratica per il lettore e porta avanti il romanzo con una costruzione che nel cinema si chiama azione parallela: tanto di cappello all’Artigiano. Con la maiu­scola, mi raccomando». Basta così, Olmi sta lavorando al montaggio di un documentario sulle rupi del vino in Valtellina. Si esce, si guarda la val­le, l’aria è tiepida. Verrebbe voglia di tirare un sasso proprio qui a fianco.