Federico Fubini e Massimo Mucchetti , Corriere della sera 30/7/2009, 30 luglio 2009
DUE ANNI DI NEOINTERVENTISMO DI STATO
Il 9 agosto 2007 il primo soccorso della Bce alle banche E Wall Street rischia di nuovo. Con i soldi dei contribuenti
Due anni fa la Banca centrale europea apriva una linea di credito a breve di 95 miliardi di euro riservata alle banche che non riuscivano più a trovare i soliti prestiti overnight per regolare i pagamenti. Sembrava ordinaria amministrazione ed era, invece, il prologo di un dramma che avrebbe portato le banche centrali e i governi a imbottirsi di titoli tossici e azioni bancarie come mai era accaduto nemmeno nei decenni più statalisti del Novecento.
La crisi covava da cinque mesi. Secondo la Bank of England, dal 5 marzo 2007 quando la Hong Kong Shanghai Banking Corporation aveva reso noto che un suo portafoglio di mutui subprime stava subendo più insolvenze di quante fossero previste nel prezzo. Ma è dal 9 agosto, con quel pronto soccorso della Bce, che la mano pubblica comincia a riacquistare la centralità dalla quale era stata allontanata negli anni ruggenti della tecnofinanza e della deregulation . E adesso, dopo 24 mesi, si può tentare un primo, provvisorio bilancio del neointerventismo degli Stati, che non sanno ancora se essere, con i soldi dei contribuenti, Stati banchieri oppure Stati azionisti riformatori o ancora Stati azionisti conservatori e infine succubi dei signori della debt economy.
Come accade perfino nelle guerre, qualcuno ci guadagna da subito. Briciole d’oro raccoglie, per esempio, la famiglia svizzera Amon. Da 80 anni possiede la Sicpa di Losanna, piccola multinazionale degli inchiostri che fornisce i preziosi verde e nero alle rotative del Bureau of Engraving and Printing. Le banconote con l’effige di George Washington sono aumentate del 10% in un anno. Così come ben si accontentano di ricevere dal Tesoro Usa 7,2 milioni di dollari per la consulenza legale gli studi Simpson, Hughes e Squire, per la consulenza finanziaria la EnnisKnupp e per quella contabile Pricewaterhouse e Ernst & Young: sono parcelle assai inferiori a quelle pagate dalle investment banks , ma cementano la reputazione, bene raro e redditizio. Sarà interessante vedere le percentuali della Bank of New York Mellon sulla gestione degli aiuti pubblici americani, ma l’essere braccio secolare del Tesoro e della Federal Reserve contribuisce a farle avere il rating tripla A, che molto abbassa il costo della raccolta rispetto alla concorrenza. La quale, peraltro, non se ne lamenta.
Le prime sei banche di Wall Street sono Goldman Sachs, JP Morgan Chase, Citigroup, Bank of America, Wells Fargo e Morgan Stanley. The Washington Post calcola che abbiano stanziato quest’anno 74 miliardi di dollari per salari, bonus e benefit dei dipendenti, 14 miliardi in più rispetto all’esercizio precedente. In media, 128 mila dollari per colletto bianco. Parecchio, e tuttavia poco in confronto ai compensi che corrono nell ”investment banking . Proiettando su base annua il primo semestre, Goldman pagherà in media 773 mila dollari a ciascuno dei suoi 29 mila dipendenti nel 2009, record assoluto. La divisione specializzata di JP Morgan, 466 mila. Morgan Stanley, che ha chiuso in rosso il secondo trimestre, ha elargito 3,9 miliardi ai dipendenti, pari al 72% dei ricavi del periodo, e ha premiato principalmente il desk delle obbligazioni istituzionali che, pur migliorando, non ha nemmeno chiuso in nero.
Già il colosso assicurativo Aig aveva confermato i bonus, nonostante il Tesoro l’avesse appena salvato dal fallimento. La nuova ondata di Wall Street declassa a grida manzoniane l’appello del presidente Obama a contenere le remunerazioni al top. una mina sotto la coesione sociale: il conflitto tra regolazione e deregolazione è strettamente legato, come mostra il grafico, agli interessi della ristretta minoranza che tratta il denaro. Ma per l’economia il punto cruciale è quanto rischio le banche stanno prendendo per riavviare la giostra. Una parte rilevante degli 11,4 miliardi di ricavi di Goldman deriva da trading di titoli. Quanto è fatto in proprio, rischiando molto, e quanto per conto dei clienti, dove, pur rischiando meno, i margini si vanno allargando anche perché, adesso, c’è meno concorrenza di prima? I bilanci non sono chiari. Del resto, in attesa che si adottino le raccomandazioni del Financial Stability Board, negli Usa vigono i principi contabili Us Gaap che compensano le posizioni attive e passive in derivati finendo così con il nascondere il rischio di controparte: quello stesso rischio che era stato trascurato negli anni della bolla globale. arduo misurarne la portata. Ma il caso della Deutsche Bank, che fa molti derivati e dà rendiconti all’europea e all’americana, è istruttivo: in Deutsche Bank, la leva finanziaria, ovvero il rapporto tra totale degli attivi e mezzi propri, appare quasi tre volte meno spinta se calcolata con gli Us Gaap. Sarà una combinazione, ma il value at risk di Goldman Sachs in primavera ha toccato il record. Delle sei grandi di Wall Street, tre hanno restituito al Tesoro gli aiuti ricevuti: 10 miliardi Goldman, 10 Morgan Stanley e 25 Jp Morgan. E tanto basta loro per ritenersi con le mani libere. Ma si tratta solo degli aiuti diretti e per le due investment banks resta la copertura della Federal Reserve quale prestatrice di ultima istanza in caso di crisi di liquidità: copertura concessa per evitare altre Lehman pur non essendo queste vere banche commerciali.
Di più, le banche tornano al profitto anche perché l’intero settore, da loro contaminato con la tecnofinanza, è stato salvato a spese dello Stato. Secondo Mediobanca, lo Stato Usa ha dato capitali e garanzie «pesanti» a 683 banche e finanziarie per ben 797 miliardi di dollari, il 5% del Pil, più della metà del patrimonio netto aggregato del sistema bancario. Solo il Regno Unito ha fatto peggio obbligando il Tesoro di Sua Maestà a impegnare 656 miliardi di sterline in cinque enormi salvataggi.
La contabilità degli aiuti pubblici non è ancora definitiva. La Bank of England stima in 1.260 miliardi di sterline gli interventi statali del suo Paese per l’acquisto di azioni bancarie, titoli tossici, garanzie, assicurazioni di attività finanziarie, in 10.440 miliardi di dollari gli analoghi interventi fatti dal governo Usa e in 1.640 miliardi di euro quelli fatti dai 16 Paesi dell’Euro. Traducendo tutto in dollari, fa 14.810 miliardi. Ma niente più delle cifre del Fondo monetario, ancorché meno aggiornate sul fronte degli aiuti pubblici, dà l’idea di come l’industria del credito sia diventata, quanto a protezioni pubbliche, la siderurgia del nuovo secolo: a metà 2008, ante Lehman cioè, la raccolta bancaria totale di Eurolandia, Usa e Regno Unito era di quasi 31 mila miliardi di dollari; di questi, circa 9 mila miliardi erano assicurati sotto forma di liquidità extra dalle banche centrali (1.950 miliardi), impegno dei governi a comprare attivi nei bilanci delle banche (2.525) e garanzie pubbliche sul debito emesso dalle banche stesse (4.480).
Se si aggiungono i pacchetti di sostegno all’economia reale che hanno frenato le insolvenze private, e dunque le sofferenze bancarie, la conclusione è evidente: più di un dollaro ogni tre è in mano al sistema finanziario grazie all’intervento pubblico in barba alle prediche contro gli aiuti di Stato.
Alla droga del debito privato in eccesso è dunque seguito il metadone dei governi, non la disintossicazione. E da quella parte della City che ancora resiste viene ora una particolare visione del futuro. Dice John Varley, amministratore delegato del gruppo britannico Barclays, che ha saputo stare a galla senza il salvagente pubblico: «Il modo migliore di ritirare il sostegno pubblico è che i governi e le banche centrali dicano che, se mai ci saranno altre scosse sul mercato, loro non esiteranno a garantire la liquidità. Più netto è quell’impegno, meno saranno le probabilità che poi lo si reclami davvero».
Ma la bolla ha lasciato due drammatici paradossi che non si risolvono con lo Stato che si limita al ruolo di Lord Protettore della liquidità. Le banche centrali dicono che non ci possono più essere istituzioni troppo grandi per non poter essere lasciate fallire e, dopo le fusioni di emergenza, come nota Simon Johnson, economista del Mit, il grado di concentrazione del sistema è aumentato.
Le banche devono lavorare con meno debiti e più capitale, aggiungono le autorità di Vigilanza, e adesso, complice la recessione, hanno spesso una leva finanziaria più lunga di prima. Se vorrà davvero ritirarsi, lo Stato banchiere per forza dovrà fare ancora molta strada, mentre gli squali di Wall Street tornano a scommettere sull’economia del debito.