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 2009  luglio 30 Giovedì calendario

DUE ANNI DI NEOINTERVENTISMO DI STATO


Il 9 agosto 2007 il primo soccorso della Bce alle banche E Wall Street rischia di nuovo. Con i soldi dei contribuenti

Due anni fa la Banca centrale europea apriva una linea di credito a breve di 95 miliar­di di euro riservata alle banche che non riuscivano più a trovare i soliti prestiti overnight per regolare i pa­gamenti. Sembrava ordinaria am­ministrazione ed era, invece, il pro­logo di un dramma che avrebbe portato le banche centrali e i gover­ni a imbottirsi di titoli tossici e azioni bancarie come mai era acca­duto nemmeno nei decenni più sta­talisti del Novecento.

La crisi covava da cinque mesi. Secondo la Bank of England, dal 5 marzo 2007 quando la Hong Kong Shanghai Banking Corporation ave­va reso noto che un suo portafo­glio di mutui subprime stava su­bendo più insolvenze di quante fos­sero previste nel prezzo. Ma è dal 9 agosto, con quel pronto soccorso della Bce, che la mano pubblica co­mincia a riacquistare la centralità dalla quale era stata allontanata ne­gli anni ruggenti della tecnofinan­za e della deregulation . E adesso, dopo 24 mesi, si può tentare un pri­mo, provvisorio bilancio del neoin­terventismo degli Stati, che non sanno ancora se essere, con i soldi dei contribuenti, Stati banchieri op­pure Stati azionisti riformatori o ancora Stati azionisti conservatori e infine succubi dei signori della debt economy.

Come accade perfino nelle guer­re, qualcuno ci guadagna da subi­to. Briciole d’oro raccoglie, per esempio, la famiglia svizzera Amon. Da 80 anni possiede la Si­cpa di Losanna, piccola multinazio­nale degli inchiostri che fornisce i preziosi verde e nero alle rotative del Bureau of Engraving and Prin­ting. Le banconote con l’effige di George Washington sono aumenta­te del 10% in un anno. Così come ben si accontentano di ricevere dal Tesoro Usa 7,2 milioni di dollari per la consulenza legale gli studi Simpson, Hughes e Squire, per la consulenza finanziaria la EnnisK­nupp e per quella contabile Pri­cewaterhouse e Ernst & Young: so­no parcelle assai inferiori a quelle pagate dalle investment banks , ma cementano la reputazione, bene ra­ro e redditizio. Sarà interessante ve­dere le percentuali della Bank of New York Mellon sulla gestione de­gli aiuti pubblici americani, ma l’es­sere braccio secolare del Tesoro e della Federal Reserve contribuisce a farle avere il rating tripla A, che molto abbassa il costo della raccol­ta rispetto alla concorrenza. La qua­le, peraltro, non se ne lamenta.

Le prime sei banche di Wall Stre­et sono Goldman Sachs, JP Morgan Chase, Citigroup, Bank of America, Wells Fargo e Morgan Stanley. The Washington Post calcola che abbia­no stanziato quest’anno 74 miliar­di di dollari per salari, bonus e be­nefit dei dipendenti, 14 miliardi in più rispetto all’esercizio preceden­te. In media, 128 mila dollari per colletto bianco. Parecchio, e tutta­via poco in confronto ai compensi che corrono nell ”investment banking . Proiettando su base an­nua il primo semestre, Goldman pagherà in media 773 mila dollari a ciascuno dei suoi 29 mila dipen­denti nel 2009, record assoluto. La divisione specializzata di JP Mor­gan, 466 mila. Morgan Stanley, che ha chiuso in rosso il secondo trime­stre, ha elargito 3,9 miliardi ai di­pendenti, pari al 72% dei ricavi del periodo, e ha premiato principal­mente il desk delle obbligazioni istituzionali che, pur migliorando, non ha nemmeno chiuso in nero.

Già il colosso assicurativo Aig aveva confermato i bonus, nono­stante il Tesoro l’avesse appena sal­vato dal fallimento. La nuova onda­ta di Wall Street declassa a grida manzoniane l’appello del presiden­te Obama a contenere le remunera­zioni al top. una mina sotto la co­esione sociale: il conflitto tra rego­lazione e deregolazione è stretta­mente legato, come mostra il grafi­co, agli interessi della ristretta mi­noranza che tratta il denaro. Ma per l’economia il punto cruciale è quanto rischio le banche stanno prendendo per riavviare la giostra. Una parte rilevante degli 11,4 mi­­liardi di ricavi di Goldman deriva da trading di titoli. Quanto è fatto in proprio, rischiando molto, e quanto per conto dei clienti, dove, pur rischiando meno, i margini si vanno allargando anche perché, adesso, c’è meno concorrenza di prima? I bilanci non sono chiari. Del resto, in attesa che si adottino le raccomandazioni del Financial Stability Board, negli Usa vigono i principi contabili Us Gaap che com­pensano le posizioni attive e passi­ve in derivati finendo così con il na­scondere il rischio di controparte: quello stesso rischio che era stato trascurato negli anni della bolla globale. arduo misurarne la por­tata. Ma il caso della Deutsche Bank, che fa molti derivati e dà ren­diconti all’europea e all’americana, è istruttivo: in Deutsche Bank, la le­va finanziaria, ovvero il rapporto tra totale degli attivi e mezzi pro­pri, appare quasi tre volte meno spinta se calcolata con gli Us Gaap. Sarà una combinazione, ma il va­lue at risk di Goldman Sachs in pri­mavera ha toccato il record. Delle sei grandi di Wall Street, tre hanno restituito al Tesoro gli aiuti ricevu­ti: 10 miliardi Goldman, 10 Mor­gan Stanley e 25 Jp Morgan. E tan­to basta loro per ritenersi con le mani libere. Ma si tratta solo degli aiuti diretti e per le due investment banks resta la copertura della Fede­ral Reserve quale prestatrice di ulti­ma istanza in caso di crisi di liquidi­tà: copertura concessa per evitare altre Lehman pur non essendo que­ste vere banche commerciali.

Di più, le banche tornano al pro­fitto anche perché l’intero settore, da loro contaminato con la tecnofi­nanza, è stato salvato a spese dello Stato. Secondo Mediobanca, lo Sta­to Usa ha dato capitali e garanzie «pesanti» a 683 banche e finanzia­rie per ben 797 miliardi di dollari, il 5% del Pil, più della metà del pa­trimonio netto aggregato del siste­ma bancario. Solo il Regno Unito ha fatto peggio obbligando il Teso­ro di Sua Maestà a impegnare 656 miliardi di sterline in cinque enor­mi salvataggi.

La contabilità degli aiuti pubbli­ci non è ancora definitiva. La Bank of England stima in 1.260 miliardi di sterline gli interventi statali del suo Paese per l’acquisto di azioni bancarie, titoli tossici, garanzie, as­sicurazioni di attività finanziarie, in 10.440 miliardi di dollari gli ana­loghi interventi fatti dal governo Usa e in 1.640 miliardi di euro quel­li fatti dai 16 Paesi dell’Euro. Tradu­cendo tutto in dollari, fa 14.810 mi­liardi. Ma niente più delle cifre del Fondo monetario, ancorché meno aggiornate sul fronte degli aiuti pubblici, dà l’idea di come l’indu­stria del credito sia diventata, quan­to a protezioni pubbliche, la side­rurgia del nuovo secolo: a metà 2008, ante Lehman cioè, la raccolta bancaria totale di Eurolandia, Usa e Regno Unito era di quasi 31 mila miliardi di dollari; di questi, circa 9 mila miliardi erano assicurati sotto forma di liquidità extra dalle ban­che centrali (1.950 miliardi), impe­gno dei governi a comprare attivi nei bilanci delle banche (2.525) e garanzie pubbliche sul debito emesso dalle banche stesse (4.480).

Se si aggiungono i pacchetti di sostegno all’economia reale che hanno frenato le insolvenze priva­te, e dunque le sofferenze banca­rie, la conclusione è evidente: più di un dollaro ogni tre è in mano al sistema finanziario grazie all’inter­vento pubblico in barba alle predi­che contro gli aiuti di Stato.

Alla droga del debito privato in eccesso è dunque seguito il meta­done dei governi, non la disintossi­cazione. E da quella parte della City che ancora resiste viene ora una particolare visione del futuro. Dice John Varley, amministratore dele­gato del gruppo britannico Bar­clays, che ha saputo stare a galla senza il salvagente pubblico: «Il modo migliore di ritirare il soste­gno pubblico è che i governi e le banche centrali dicano che, se mai ci saranno altre scosse sul merca­to, loro non esiteranno a garantire la liquidità. Più netto è quell’impe­gno, meno saranno le probabilità che poi lo si reclami davvero».

Ma la bolla ha lasciato due dram­matici paradossi che non si risolvo­no con lo Stato che si limita al ruo­lo di Lord Protettore della liquidi­tà. Le banche centrali dicono che non ci possono più essere istituzio­ni troppo grandi per non poter es­sere lasciate fallire e, dopo le fusio­ni di emergenza, come nota Simon Johnson, economista del Mit, il gra­do di concentrazione del sistema è aumentato.

Le banche devono lavorare con meno debiti e più capitale, aggiun­gono le autorità di Vigilanza, e adesso, complice la recessione, hanno spesso una leva finanziaria più lunga di prima. Se vorrà davve­ro ritirarsi, lo Stato banchiere per forza dovrà fare ancora molta stra­da, mentre gli squali di Wall Street tornano a scommettere sull’econo­mia del debito.