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 2009  luglio 30 Giovedì calendario

SPARATE E BATTAGLIE GIUSTE


«Non pubblicare arti­coli, poesie o titoli in dialetto», diceva una delle direttive ai giornali emanate nel 1931 da Ga­etano Polverelli, capo ufficio stam­pa di Mussolini: «L’incoraggia­mento alla letteratura dialettale è in contrasto con le direttive spiri­tuali e politiche del Regime, rigi­damente unitarie. Il regionalismo, e i dialetti che ne costituiscono la principale espressione, sono resi­dui dei secoli di divi­sione e servitù».
Un ordine insensa­to. Uno spreco di ric­chezze.
Che Luigi Mene­ghello, autore di li­bri straordinari e stralunate filastroc­che («potacio ba­tòcio spuacio pa­stròcio / balòco sgnaròco sogato pèocio») avrebbe po­tuto disintegrare spiegando dall’alto della sua cattedra al­l’università di Rea­ding che non solo «chi è padrone del proprio dialetto poi impara meglio l’ita­liano, l’inglese e pu­re il tedesco» ma che «’l’uccellino’ ita­liano, con tutto il suo lustro, ha l’occhietto vitreo di un aggeggino di smalto mentre l’’ oseléto’ veneto che annuncia la primavera ha una qualità che all’al­tro manca: è vivo».
Vale per il dialetto veneto e il si­ciliano, il sardo e il piemontese. Tutti. Come dice Ferdinando Ca­mon, lui pure devoto alla lingua davvero materna, i «putei» e i «picciriddi», i «pizzinnu» e i «cit» non sono solo «bambini».
Ma qualcosa di più. Per questo è un peccato che una battaglia giu­sta, quella del recupero anche a scuola delle lingue locali usate da Verga e Pavese, Gadda e Fenoglio oggi stravolte da un impasto di te­le- italiano «grandefratellesco», venga svilita in una sparata stru­mentale buttata lì dai leghisti, con accenti pesantemente anti-unita­ri, per ragioni di bottega.
Come è un peccato che un pro­blema legittimamente posto nel consiglio provinciale di Vicenza, quello delle gradua­torie nei concorsi pubblici che al Nord hanno regole più ri­gide e al Sud più ela­stiche, venga tradot­to in un attacco a tut­ti i docenti meridio­nali venato di vecchi rigurgiti razzisti che sembravano (sem­bravano) accantona­ti.
La scuola, come sa chi raggela davan­ti a certe classifiche internazionali che vedono il nostro Pae­se in drammatico ri­tardo (con la lumino­sa eccezione di alcu­ne regioni settentrio­nali piene zeppe, a sentire il Carroccio, di docenti «terro­ni »), non ha biso­gno di maestri e professori che sappiano recitare «sic sac de hoc sec iè car ac a cà» (sottotitolo per i non bergamaschi: cinque sacchi di legna secca costano care ovun­que) ma di maestri e professori che conoscano e sappiano inse­gnare al meglio la matematica, la fisica, l’inglese, la storia, l’italia­no...
Ha bisogno, insomma, di un sal­to di qualità.
Che recuperando un forte e comune sentire intorno all’idea della Patria, dell’Unità, del Risorgimento possa permetterci di ricucire senza derive campanilistiche con le nostre lingue di ieri che per Giacomo Leopardi erano le più vicine «all’espressione diretta del cuore».
E chissà che questa nuova scuola, italiana ma rispettosa dei dialetti, consenta ai deputati e ai senatori di domani di essere un po’ più preparati di quelli di oggi, visto che ai microfoni delle Jene sono arrivati a collocare Guantanamo in Iraq e a definire il Darfur «un sistema di mangiare veloce», i baschi dell’Eta «un movimento irlandese» e Caino «figlio di Isacco». Per non dire della scoperta dell’America (oscillante tra il 1640 e il 1892) e altre amenità che ogni maestra da Sondrio a Crotone, inorridita, avrebbe segnato con la matita blu.