Fabio Ferzetti, il Messaggero 30/7/2009, 30 luglio 2009
MONICELLI «LA GRANDE GUERRA CONTRO RETORICA E MENZOGNA»
Della Prima guerra mondiale Mario Monicelli conserva immagini nettissime e personali. «Ricordo mio padre che tornava a casa in congedo, l’odore che si portava addosso di panni bagnati e di minestra, anzi di gavetta, poi racconti, imprecazioni, risate».
Sono ricordi lontani, Monicelli è del 1915, ma tenaci. «Col tempo quei racconti, ascoltati mille volte, hanno acquistato una fisionomia più precisa. Sentivo parlare di cannoni e trincee, di giornate interminabili sotto il sole o nel fango. Atmosfere, insomma. Poi, grazie ai libri di Emilio Lussu e Piero Jahier, ho iniziato a capire. Il fascismo ci aveva rintronato, per la propaganda la Prima guerra mondiale era stata l’ultima guerra d’indipendenza, con il popolo italiano lanciato compatto alla riconquista di Trieste. Leggendo Un anno sull’altipiano capii la spaventosa truffa perpetrata sulla pelle dei 600.000 caduti al fronte».
Quarant’anni dopo quella carneficina avrebbe ispirato un film indimenticabile che il 1 settembre festeggerà il cinquantenario inaugurando in Campo San Polo la Mostra di Venezia. Nel 1959 infatti La Grande guerra di Monicelli, con Alberto Sordi e Vittorio Gassman nei panni dei soldati vigliacconi destinati a morire da eroi, vinse un meritatissimo leone d’oro ex-aequo con Il generale Della Rovere di Rossellini. Eppure quel film oggi celebrato come un capolavoro, all’epoca superò resistenze micidiali, come ricorda il regista.
«Molti giornali ci spararono addosso, in testa Paolo Monelli su La Stampa e Ernesto Baldacci sul Giorno. Dava fastidio che noi cialtroni del cinema osassimo abbordare un argomento tabù, per giunta con due comici come Alberto Sordi e Vittorio Gassman. Fu una cosa molto seria. Di fronte a quelle bordate Giulio Andreotti, che aveva letto il copione e promesso di aiutarci fornendo armi e divise, seppure in via non ufficiale, fece marcia indietro. Perfino il produttore Dino De Laurentiis sulle prime si spaventò. Ma tenne duro, minacciando di spostare tutto in Jugoslavia e alla fine il film si fece, in Friuli, dove durante i sopralluoghi trovammo le tracce delle trincee del 15-18 ancora visibilissime. Bisogna dire che quelli dell’epoca erano davvero grandi produttori. Litigavamo come pazzi, volavano parole grosse, ma anche loro amavano profondamente il cinema e finivano quasi sempre per capire le nostre ragioni».
Nessuna pressione, neanche per un film così diverso dal solito? «Al contrario. Ricordo due telefonate da Roma, non di più. Nella prima De Laurentiis, dopo aver visto il ”girato”, sbraitava per quegli ufficiali e quei soldati sempre laceri, sporchi, stracciati. Voleva divise immacolate, figurarsi, mentre io li facevo rotolare nel fango per rendere tutto più veristico. Gli risposi picche, o così o lascio il set. Me la diede vinta. Nella seconda telefonata invece mi incitava a non lesinare nelle scene di massa, usando tutte le comparse che volevo, senza badare a spese. Una cosa mai vista, né prima né dopo! E fu sempre lui a decidere di scritturare due grandi nomi, Gassman e Sordi, io all’inizio ne volevo uno solo, pensavo che due costassero troppo. Ecco, questo era De Laurentiis».
Qualcuno capì subito il progetto del film? Vi sarà capitato di far leggere il copione, durante le ricerche. «Con Age, Scarpelli e Vincenzoni andammo in pellegrinaggio da Giovanni Mosca, il principe degli umoristi, certi di trovare comprensione e complicità. Ci prese quasi a calci, disse che eravamo antiitaliani, che era una cosa turpe trattare in modo dissacrante un sacrificio così immane. Era un fascistone ma anche un grande umorista, fedele alla linea astratta, a ben vedere sempre estranea alla politica e alla società, tipica di un certo umorismo italiano, a partire da Achille Campanile».
Se i conservatori attaccavano, avrete avuto appoggi a sinistra. Molti oggi considerano La Grande guerra il film che diede l’avvio a una nuova sensibilità culturale e politica, anticipando in certo modo il centrosinistra. Non a caso Saverio Tutino vi difese su L’Unità. «Anche Il Mondo di Pannunzio ci appoggiò, come aveva sempre fatto. Il gruppo del Mondo, in testa Ennio Flaiano naturalmente, fu il primo a capire cos’era la nostra commedia, che allora era detta ”all’italiana” proprio in senso dispregiativo. Amavano moltissimo anche Totò. Ma erano eccezioni, piccole minoranze fra gli intellettuali. Quanto ai partiti, io all’epoca ero socialista, come Age, Scarpelli, Comencini e altri quattro gatti nel cinema, ma il Psi non era attento alla cultura come il Pci, mancava proprio l’organizzazione, in tanti anni di iscrizione credo di non aver mai nemmeno visto una tessera, figuriamoci chiedere un appoggio politico. E poi non ne avevamo bisogno: all’epoca in Italia si staccavano 800 milioni di biglietti l’anno, non 80 come oggi, il cinema era popolarissimo, i produttori si contendevano i nostri progetti ed erano molto più disposti a rischiare».
«In fondo», conclude Monicelli, «De Laurentiis protestava per le divise lacere, ma nei documenti visivi che avevo consultato la realtà era infinitamente più dura. Altro che retorica e patriottismo: i soldati italiani erano una massa di straccioni che si spulciavano a vicenda o bruciavano le cimici sul letto. In fondo la guerra l’abbiamo vinta perché austriaci e tedeschi decisero di non poter sopportare più tutte quelle perdite umane. Però né noi né i francesi abbiamo mai vinto una battaglia. Ce l’abbiamo fatta perché i poveri cafoni analfabeti chiamati alle armi nel nostro Mezzogiorno vivevano come animali, in condizioni ancora peggiori di quelle dell’esercito, dunque perfino la vita al fronte poteva sembrare un miglioramento. Ma questo allora non l’aveva ancora raccontato nessuno».