Americo Bonanni, varie, 30 luglio 2009
IL BUSINESS DELLO SPAZIO, PER VOCE ARANCIO
Era il 1925 quando il film Una donna sulla Luna, di Fritz Lang, conteneva già l’idea di base: sul nostro satellite possono trovarsi minerali di altissimo valore (oro, in quel caso), capaci quindi di scatenare enormi interessi economici. Ciò che nel frattempo abbiamo imparato, sia sulla Luna che sugli altri corpi celesti vicini, non giustifica, non ancora almeno, il sogno di un Eldorado nel cielo. Però prospetta con realismo la possibilità di avviare attività economiche vantaggiose sfruttando le risorse del Sistema solare. Per qualcuno siamo all’alba della Space economy, anche se in molti esperti prevale ancora lo scetticismo di fronte ai problemi tecnici e, soprattutto, gli enormi investimenti necessari.
Le promesse che vengono dallo spazio sono essenzialmente due: energia a basso costo e materie prime che potrebbero essere estratte dai corpi celesti più o meno vicini. In altri termini, due dei principali motori dell’economia mondiale. Non è solo questione di guadagni più o meno grandi: c’è chi vede nell’avvio della Space economy un modo per smetterla di esaurire le risorse della Terra e per ridurre l’impatto delle attività industriali sull’ecosistema. In altri termini, risolvere i problemi ambientali semplicemente spostando le attività più inquinanti fuori dal nostro pianeta.La missione Apollo 11
Molto probabilmente l’evoluzione nel campo dello sfruttamento delle risorse spaziali vedrà però una prima fase in cui a beneficiarne non sarà la Terra, ma i primi insediamenti umani permanenti fuori dal nostro pianeta. I piani attuali delle principali potenze spaziali, dagli Stati Uniti alla Cina, dalla Russia all’Europa e al Giappone, ed anche di nazioni emergenti in questo settore come l’India, prevedono praticamente tutti il ritorno degli uomini sul nostro satellite entro la prossima decade. All’inizio saranno visite brevi, come quelle delle missioni Apollo. Ma l’obiettivo è l’installazione di basi stabili, non molto diversamente da quello che avviene da tempo in Antartide. E se non sarà la Luna, sarà Marte. In ogni caso, pensare di trasportare dalla Terra tutto il materiale necessario alla costruzione ed alla vita di questi insediamenti (centinaia se non migliaia di tonnellate) è praticamente impossibile.
Costo attuale per sollevare in orbita un chilo di materiale usando i razzi o lo Shuttle: intorno ai 10.000 dollari. Un costo che cresce a dismisura se poi bisogna trasportare quel chilo sulla Luna o su Marte.
L’unica soluzione per consentire l’installazione di basi stabili sarà dunque quella di ricorrere a risorse presenti già nello spazio, sia in termini di energia che di materie prime. E poi potrebbe essere la volta della Terra. Le tecnologie sviluppate per la produzione di energia e per l’estrazione di risorse minerarie dai corpi celesti potrebbero infatti rifornire il nostro pianeta in modo pulito ed efficiente.
Lo sfruttamento dell’energia solare è passo più abbordabile di questa nuova industria. La tecnologia da usare è tutto sommato tradizionale: centrali fotovoltaiche nelle quali la luce solare viene convertita direttamente in energia elettrica. Quelle installate sulla Terra hanno limitazioni abbastanza ovvie, come il ciclo giorno-notte e la presenza di atmosfera, che riduce la quantità di energia ricevuta rendendola anche molto irregolare per via delle condizioni meteorologiche. Una centrale nello spazio, invece, potrebbe essere sistemata in un’orbita geostazionaria, la stessa usata dai satelliti che ci trasmettono la tv digitale, ad un’altezza di 35.786 chilometri. In queste condizioni, sarebbe illuminata dal Sole per il 99% del tempo e riceverebbe una luce assolutamente non schermata.
Simulazione di vita sulla Luna
Diverse le imprese che stanno investendo nello studio di una centrale fotovoltaica nello spazio, e che devono vedersela con problemi ancora aperti. Primo fra tutti il peso delle apparecchiature da spedire in orbita. Le tecnologie attualmente in uso sono troppo pesanti. Per dare un’idea, montare una sola centrale da 4 Gigawatt necessiterebbe di circa 50 lanci spaziali con i razzi attuali. Ma lo sviluppo di nuove celle solari basate su film sottili, nei quali sono sovrapposti strati di rame, indio, gallio e selenio, appoggiati ad un foglio di alluminio, potrebbe portare ad avere celle solari dello spessore di alcuni micron, fragilissime per la Terra, ma adatte allo spazio, capaci di estendersi per oltre 40 chilometri quadrati. Alla statunitense PowerSat, una delle società impegnate in questa avventura, calcolano di poter costruire centrali pesanti appena 10 tonnellate, ma capaci di generare 17 MegaWatt di corrente.
C’è il problema di trasferire quell’energia a Terra. I progetti allo studio prevedono di usare fasci di microonde, più o meno alla stessa frequenza usata oggi dai segnali wireless dei computer. La centrale in orbita li trasmetterebbe grazie ad antenne di circa 10 chilometri di diametro. La ricezione a Terra sarebbe decisamente imponente: un’antenna larga alcune decine di chilometri, in una zona dove sicuramente i telefoni cellulari e tutti gli altri apparecchi di comunicazione smetterebbero di funzionare, e dove, inoltre, si avrebbe un innalzamento di temperatura capace di disturbare, ma non uccidere, gli uccelli che attraversassero il fascio di onde. A quel punto l’energia, della quale si sarebbe perso appena il 16% nel trasferimento, sarebbe pronta per essere immessa nella rete.
Gli sviluppi tecnologici necessari sono imponenti, ma non impossibili, e gli analisti hanno calcolato che centrali del genere riuscirebbero a generare profitti ragionevoli nel corso dei venti anni di vita previsti per ciascuna di esse.
Tutt’altro discorso è quello delle materie prime, dove di salti tecnologici ce ne vorranno molti di più, e più incisivi. Le osservazioni scientifiche dei corpi del Sistema solare condotte negli ultimi anni raccontano una storia che dovrebbe interessare molto qualsiasi compagnia mineraria.
Modello di un impianto solare spazialePrima di tutto sarà necessario decidere quale sia il posto più promettente per le attività minerarie fuori da questo mondo. La Luna appare, istintivamente, il primo obiettivo. Piani per il ritorno degli uomini esistono già, ed è comodamente vicina al nostro pianeta. Ma gran parte della comunità scientifica la vede diversamente. Le materie prime estratte dalla Luna potrebbero essere naturalmente usate direttamente sul posto, proprio per il sostentamento di colonie sul nostro satellite. Ma se volessimo riportarle sulla Terra, o anche solo usarle in stazioni spaziali, ci troveremmo di fronte al cosiddetto ”pozzo gravitazionale” da cui uscire. Anche con la sua bassa gravità (sei volte meno della Terra), lanciare del materiale dalla Luna significherebbe infatti dover impiegare notevoli quantità di energia, cosa che potrebbe vanificare qualsiasi vantaggio economico. Molto meglio, allora, rivolgersi agli asteroidi, almeno a quelli più vicini, i cosiddetti Near Earth.
anche per questo che in tutti gli ambienti che si occupano di esplorazione spaziale sta crescendo un forte ”partito degli asteroidi”. Un asteroide, per via delle sue dimensioni ridottissime, ha una forza di gravità estremamente bassa, cosa che renderebbe molto più economico spedire nello spazio un carico di minerali o altre materie prime estratte dalla sua superficie.
Sia per la Luna che per gli asteroidi, il secondo passo è dare uno sguardo alle materie prime disponibili. Il punto di partenza di qualsiasi attività di estrazione è molto diverso da quello che ci si aspetterebbe. Sarà l’acqua il vero tesoro che permetterà di muovere i primi passi. Acqua da cui ricavare idrogeno e ossigeno per il sostentamento delle basi, la propulsione delle astronavi e lo svolgimento di tutte le operazioni minerarie. Lo scorso anno l’analisi dei dati raccolti dalla sonda americana Lunar prospector ha permesso di individuare possibili riserve idriche sul nostro satellite naturale distribuite sui due poli. Ma tra gli asteroidi esistono anche comete ormai estinte, dove la riserva di acqua residua sarebbe enorme.
L’elio-3 (He-3), prodotto nel Sole, viene regolarmente disseminato tra vari corpi celesti dal vento solare. Ma sulla Terra, schermata dal proprio campo magnetico, è praticamente inesistente. C’è invece sulla Luna, come testimoniato dalle rocce riportate indietro dalle missioni Apollo. L’interesse del mondo scientifico verso questo isotopo dell’elio è dovuto al fatto che potrebbe essere usato nei processi di fusione nucleare al posto del più tradizionale idrogeno.da 2001 Odissea nello Spazio
La scena economica, allora, la rubano gli asteroidi. In particolare quelli più pericolosi per la Terra perché incrociano l’orbita del nostro pianeta. Ma anche i più ipoteticamente redditizi per la facilità con cui potrebbero essere raggiunti. Ne sono stati catalogati quasi seimila, e per il 10% di loro l’energia necessaria per raggiungerli è minore di quella di un viaggio verso la Luna.
John Lewis, nel suo libro Mining the sky stima che un asteroide di un chilometro di diametro avrebbe una massa totale di due miliardi di tonnellate. In termini di materie prime, lì dentro ci sarebbero 30 milioni di tonnellate di nickel, un milione e mezzo di tonnellate di cobalto e 7.500 tonnellate di platino, che da solo avrebbe un valore di 150 miliardi di dollari.
Ma quali sono i salti tecnologici necessari perché inizi una qualche attività mineraria nello spazio? Gli asteroidi sono oggetti difficili da trattare, prima di tutto. La loro bassa gravità, comoda per lanciare i materiali estratti, darebbe non poche difficoltà agli impianti di estrazione. Poi, non basterà ”grattare” l’asteroide: sarà necessario raffinare e processare le rocce, tutto ad opera di impianti interamente automatici, senza la presenza umana. Infine c’è il trasporto. I pacchetti di materie prime dovranno essere lanciati usando energia prelevata sul posto. Potrebbero essere comuni razzi, ma si pensa anche a binari elettrici alimentati da celle solari e capaci di sparare i carichi dalla superficie del corpo celeste verso la destinazione desiderata. Che potrebbe essere una stazione spaziale in orbita attorno alla Terra nella quale si procederebbe alla lavorazione definitiva fino ad avere i materiali puri.Meteorite
Non ci si dovrebbe meravigliare, però, se i problemi principali non fossero di ordine tecnico, ma legale. Si può possedere un corpo celeste? Si può avere la proprietà privata nello spazio? Piantare una bandiera significa reclamare il possesso di un territorio? Tutte domande che qualsiasi impresa mineraria si dovrà porre. Fino ad oggi, praticamente, le uniche normative esistenti sono i trattati e le risoluzioni Onu. Il principale accordo fu firmato nel 1967, quando sulla Luna non ancora ci si arrivava.
La Orbital Development, una compagnia americana, ha reclamato nel 2000 diritti di proprietà sull’asteroide Eros. Nel 2001 la Nasa ha fatto schiantare su quel corpo celeste la sonda NEAR-Shoemaker, che naturalmente è rimasta lì. A quel punto l’impresa statunitense ha inviato alla Nasa una fattura da 20.000 dollari per il ”parcheggio e storaggio” della sonda per un periodo di cento anni. Proprio sulla base del trattato del 1967, la Nasa si è ovviamente rifiutata di pagare, appoggiata dal Dipartimento di stato Usa. C’è da chiedersi, a quando i primi avvocati spaziali?