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 2009  luglio 29 Mercoledì calendario

RUSHDIE: «IO, COLLEZIONISTA DI LP SCELGO L’HAREM DI JIMI HENDRIX»


Londra, 22 novembre 1968. Sal­man Rushdie era allora un giova­ne studente al prestigioso (e ri­goroso) King’s College di Cam­bridge. Ma quel giorno marinò le lezioni. «Ero in fila da ore davanti ad un piccolo negozio di dischi di King’s Road – rac­conta al Corriere ”. Beh, usciva White Al­bum dei Beatles. Mica potevo perderlo».

Vent’anni più tardi, quando sulla testa gli gravava una fatwa (condanna islami­ca) per il suo romanzo «I versi satanici», lui rispondeva agli ayatollah a colpi di rock and roll. Sul palco, improvvisando insieme al grande amico Bono Vox degli U2; nelle interviste, quando ammiccava ridacchiando a «Sympathy for the Devil» dei Rolling Stones. E oggi non ha perso il vizio, perché se gli chiedi qual è la cover discografica alla quale non rinuncerebbe mai, lui se la ride: «Electric Ladyland di Jimi Hendrix». Sì, proprio quella che sul dorso esibisce un laocoontico groviglio di ragazze a seno nudo, un gineceo multi­colore e lascivo di groupies . Una coperti­na storica, tra l’altro, che Hendrix non vo­leva e subì digrignando i denti, ma che fu imposta dalla casa discografica inglese. «Capitemi – sospira Salman Rushdie ”: io amo i vinili».

E confessa un curioso feticismo per le copertine, per i dischi «storici». «Io sono abbastanza vecchio da aver potuto colle­zionare dischi in vinile quando questi era­no nuovi. Per esempio, il mio White Al­bum ha un numero di matricola di cui so­no orgoglioso: 963, quindi nei primi mil­le. Abbastanza pregiato, direi». Anche nel­la copertina, idea di Richard Hamilton: to­talmente bianca, con il nome della band in rilievo. «E vogliamo parlare – conti­nua – della ’banana’ inventata da Andy Warhol per l’album The Velvet Under­ground & Nico? Sono icone che ormai fan­no parte di noi. Un po’ come il rock. Che sa parlare un linguaggio universale».

Per Rushdie, nato a Bombay nel 1947, il rock è stato trasgressione, frequenza dionisiaca, eco di un mondo che, nell’In­dia fresca di indipendenza, arrivava a sprazzi. «Dalle radio non ufficiali – rac­conta – che trasmettevano le hit occi­dentali. Ricordo la sensazione che provai quando ascoltai per la prima volta la voce nasale di Dylan. Sentivo che, dall’altra parte, stava succedendo qualcosa». Molti anni dopo, nella villa inglese di Tom Stop­pard, incontrerà Vaclav Havel. Parlando dei Velvet Underground, Havel gli confes­serà che quel rock è stato importantissi­mo nella strategia politica della resisten­za Ceca: «Perché secondo te l’hanno chia­mata ’rivoluzione di velluto’?» ( velvet , in inglese, vuol dire appunto velluto. Sì, una battuta, però d’effetto).

Per decenni Rushdie il rock l’ha solo immaginato. Poteva ascoltare, ma i di­schi occidentali arrivavano in India con difficoltà. E le immagini restavano echi di fantasie. Chissà, pensava, come sarà la copertina di Heartbreak Hotel (« stato il primo disco che ho acquistato»)? E che cosa metteranno per illustrare Rock Around The Clock di Bill Haley? Cercava così di dare corpo, colore, consistenza a quella musica ecumenica, capace di supe­rare barriere linguistiche, sociali, genera­zionali. La copertina diventava così epifa­nia, materializzazione iconografica di una sensazione primitiva. «In alcune – continua lo scrittore – c’è un’autentica simbiosi con l’arte. Penso alla cover di Sgt. Pepper dei Beatles, realizzata da Pe­ter Blake. Penso a Exile on Main Street de­gli Stones, con il bellissimo collage in bianco e nero, fatto di fotografie di Ro­bert Frank».

Lui ama le copertine affollate, in cui personaggi e idee nascono quasi per gem­mazione. Un po’ come i protagonisti dei suoi romanzi e in uno di questi, «La terra sotto i suoi piedi», si snoda la storia di una rockstar, Vina Apsara, e del musici­sta Ormus Cama, in una rilettura pop del mito di Orfeo. Da questo racconto Bono Vox ha tratto una poesia-canzone, appun­to «The ground beneath her feet». Bono ha protetto a lungo Rushdie negli anni della fatwa, ospitandolo a casa, invitan­dolo ai concerti. «Ma non ho mai canta­to », scherza oggi lo scrittore, che più vol­te ha ribadito la sua passione per gli Sto­nes, come disse anni fa all’ Observer. «Non hanno assassinato le loro vecchie canzoni, come ha fatto Bob Dylan». Degli Stones ama pure la copertina di Sticky Fingers, quella zip maliziosa, schiusa su un fiorente paesaggio maschile (censura­ta in diversi paesi), anche questa fotogra­fata da Andy Warhol.

Infine, c’è l’amore per Patti Smith, «co­sì ben raccontata da Robert Mapplethor­pe sulla copertina di Horses». Un bianco e nero in cui l’androginia della Smith ri­salta come un’acquaforte blasfema. Un amore, questo, nato tardi perché prima ci furono Elvis e Little Richard, quelli che con la musica «divennero – dice Ru­shdie – fenomeni globali in un’epoca in cui i mass media non erano così diffusi. Il miracolo del rock». E forse, a ben legge­re, anche l’ultimo romanzo dello scritto­re, «L’incantatrice di Firenze» è una favo­la «planetaria», al pari del rock: c’era una volta una bellissima principessa che, tra rivoluzioni e sortilegi, attraversava il mondo, dall’Oriente all’Occidente.