Luigi Zingales, ཿIl Sole-24 Ore 29/7/2009;, 29 luglio 2009
SOLO IL MERCATO EREDE DI REAGAN BATTER OBAMA
Dopo la sconfitta di novembre il partito repubblicano americano è in grave crisi. Talmente grave che i maggiori giornali cercano di indovinare quale sarà il partito repubblicano di domani, perché quello di oggi, arroccato in una opposizione sterile contro un presidente estremamente popolare, non sembra in grado di convincere. Non c’è solo un vuoto di leadership, ma un vero vuoto ideologico. Il partito di Reagan, che ha dominato la vita politica americana per quasi trent’anni, sembra a corto di idee. In questa affannosa ricerca il Boston Globe ha nominato perfino me tra i quattro pensatori conservatori che potrebbero dare nuova linfa ideologica al partito. Non mi ritengo un conservatore nel senso letterale del termine, né tantomeno un pensatore politico. Anzi non sono proprio politico, visto che creo più controversia che consenso, perché non riesco mai a trattenermi dal dire quello che penso. Ma adoro la provocazione intellettuale e quindi, raccogliendo la sfida del Boston Globe, proverò a delineare quella che secondo me potrebbe essere la nuova piattaforma politica repubblicana.
Innanzitutto, è importante capire come un partito, che prima del 2008 ha vinto cinque delle ultime sette elezioni presidenziali, sia diventato minoranza nel paese. Questa sconfitta nasce dalla fine di un’epoca, iniziata da Ronald Reagan. Nel 1980 Reagan vinse le elezioni, convertendo una fetta consistente di democratici con tre idee molto semplici. Primo, la lotta contro l’impero del male, l’Unione Sovietica comunista. Secondo,la battaglia contro l’eccesso di statalismo: «Il governo è il problema, non la soluzione », amava ripetere Reagan. Terzo, la fiducia nella crescita economica come soluzione di tutti i problemi. La crescita migliora il benessere di tutti, sollevando dalla povertà i meno abbienti ed eliminando la necessità di costose redistribuzioni fiscali. Se l’obiettivo è la crescita, un forte taglio delle aliquote fiscali per i redditi più elevati diventa non solo giustificabile, ma perfino necessario, perché aumenta gli incentivi a creare maggiore ricchezza. La battaglia per la riduzione delle aliquote divenne così l’arma vincente dei repubblicani. Tanto più che questa riduzione non doveva essere accompagnata da penosi tagli alla spesa pubblica, perché i disavanzi fiscali (un tempo inaccettabili per i conservatori) diventarono non solo ammissibili, ma addirittura benvenuti. Ammissibili perché la crescita prodotta dai tagli fiscali avrebbe generato gli introiti fiscali necessari a curare i disavanzi. Benvenuti, perché i disavanzi erano una strategia machiavellica per "affamare la bestia", cioè lo Stato opprimente. Caricandolo di debiti, se ne riduceva la capacità di nuocere.
Nel 1980, quando l’aliquota fiscale era al 70% e il paese veniva da un decennio di bassa crescita e alta inflazione,dalla sconfitta in Vietnam,dall’invasione sovietica dell’Afghanistan e dall’umiliazione degli ostaggi americani a Teheran, questa piattaforma divenne estremamente attraente. Un’intera generazione aderì in massa al partito repubblicano, formando una maggioranza così solida da permettere vent’anni dopo a George Bush di essere eletto presidente. M
a il successo di questa piattaforma non fu solo in campo elettorale. La guerra contro l’impero del male portò al crollo del comunismo e alla democratizzazione dei paesi dell’area sovietica. La lotta contro lo statalismo riuscì a fermare l’incremento del peso dello Stato. La deregolamentazione liberò l’economia da eccessivi vincoli e, insieme con una riduzione delle aliquote fiscali, permise una enorme crescita economica. Tra il 1980 e il 1988 il Pil crebbe del 3,5% per anno. E questa onda lunga continuò fino al 2007. Dal 1980 gli Stati Uniti sono cresciuti del 3% l’anno, contro 1,9% della Germania, il 2,1% della Francia e l’1,8% dell’Italia. Non solo questa rivoluzione ha permesso al paese di crescere in termini di reddito e produttività a livelli molto superiori all’Europa, ma lo ha anche trasformato da potenza manifatturiera in potenza nei servizi. Oggi l’America non produce
i-phone, ma genera la tecnologia e il design che permette a un pezzo di plastica di essere venduto per 400 euro. Non produce chip, ma genera la tecnologia che permette a dei wafer di silicio di essere venduti per centinaia di dollari l’uno.Non produce computer, ma inventa i sistemi operativi per farli andare avanti. Questa trasformazione permette oggi agli Stati Uniti di affrontare la competizione dei paesi emergenti da una posizione di forza.
Paradossalmente è proprio il successo di questo programma che ha indebolito la piattaforma ideologica del partito repubblicano. La battaglia contro l’impero del male è stata vinta. Come continuare a motivare le truppe? George W.Bush ci ha provato, rimpiazzando ( con poca fantasia)l’asse del male (Corea, Iran e Iraq) all’impero del male. Ma, a differenza della lotta contro l’Unione Sovietica, questa guerra è costata agli americani 4328 morti e 642 miliardi, senza produrre una vittoria definitiva.
Anche la battaglia contro lo Stato ha rendimenti decrescenti. Quando una banca di Chicago non poteva aprire sportelli non solo in un altro Stato ma addirittura nel sud dell’Illinois, quando un camion doveva ottenere un permesso per trasportare merce attraverso i confini di due stati americani, quando un’agenzia governativa decideva i prezzi dei voli commerciali, deregolamentazione era un grido di libertà che riscuoteva il consenso di tutti gli americani. Ma oggi che queste restrizioni sono solo un lontano ricordo, la bandiera della deregolamentazione non è più vista come un simbolo di libertà, ma come una copertura ideologica agli interessi economici della lobby finanziaria.
Perfino la crescita economica è diventata un obiettivo meno attraente. Nonostante negli ultimi 25 anni il Pil americano sia più che raddoppiato in termini reali, la maggioranzadegli americani ha visto il proprio reddito reale crescere di solo il 17 per cento. Dove sono finiti tutti i soldi? La risposta è ai più ricchi. Nell’ultimo quarto di secolo il reddito dell’ 1% più ricco della popolazione è quasi triplicato, mentre quello dello 0,01% più ricco è più che quintuplicato.Durante l’ultima espansione economica (tra il 2002 e il 2006), l’1% più ricco si è accaparrato il 75% della crescita economica. Paradossalmente i veri sonfitti di questo periodo sono i "Reagan democrat", lavoratori blue collar con al massimo un diploma di scuola superiore. Mentre nel 1980 un diplomato guadagnava il 26% meno di un laureato, nel 2005 questo divario era aumentato al 38 per cento.
Finora la mancata crescita del reddito era stata compensata, almeno in parte, da una crescita dei valori delle case e della Borsa. Ma la crisi ha distrutto anche questa consolazione, creando un enorme scontento. In un sondaggio a dicembre il 60% degli americani ha dichiarato di essere arrabbiata o molto arrabbiata per la situazione corrente. La combinazione tra questa crescente disuguaglianza di reddito e la rabbia per il tradimento del sogno americano, che ogni generazione è destinata a stare molto meglio della precedente, crea un terreno fertile per il populismo. Quando in settembre il congresso americano votò contro la prima versione del piano Paulson, lo fece in risposta alla rabbia presente nel paese. Quando in Marzo il congresso approvò un’imposta del 90% sui bonus di Aig, lo fece in risposta alla rabbia presente nel paese. E quando Obama rinnegò i suoi consiglieri e condannò i compensi pagati ai manager delle imprese finanziarie aiutate dal governo, lo fece in risposta alla rabbia presente nel paese. Il problema, quindi, non è tanto se questa pressione populista avrà un forte peso sul dibattito politico futuro, ma in che direzione questa pressione sarà incanalata. Sarà usata per distruggere il sistema che ha portato così tanto benessere agli Stati Uniti o sarà usata per migliorare questo sistema e renderlo più equo?
E qui sta il vero dilemma per i repubblicani. Nelle mani dei democratici questo populismo può essere pericoloso. La maggior parte dell’establishment democratico non crede nel sogno americano, non crede nell’importanza degli incentivi alla crescita, non crede nel mercato come il meccanismo migliore per gestire le risorse disponibili. Nelle mani dell’establishment democratico questa rabbia popolare rischia di tradursi in protezionismo, imposte al 90%, e vincoli al mercato.
Nelle mani dei repubblicani, invece, questa rabbia popolare può diventare una potente forza di rinnovamento. Solo chi crede nel mercato può riformare il mercato. Chi non ci crede, può solo distruggerlo. Agli inizi del ventesimo secolo, in condizioni molto simili di disuguaglianza di reddito e rabbia popolare, il repubblicano Theodore Roosevelt approvò una serie di riforme fondamentali che fecero degli Stati Uniti un paese moderno. Dalla Food and Drug Administration alle leggi sulla qualità dell’acqua potabile, dalla riforma della legge elettorale del senato alle indagini sullo strapotere del cartello finanziario, Roosevelt sfruttò la rabbia popolare per controbilanciare il potere delle grosse imprese e introdurre una serie di riforme che crearono un mercato più equo ed efficiente.
Per raccogliere questa sfida, però, il partito repubblicano deve abbandonare alcuni pregiudizi ideologici che lo hanno caratterizzato negli ultimi decenni. Come Reagan abbandonò il rigore fiscale e la real politik di Kissinger, così il nuovo partito repubblicano deve abbandonare due tabù: l’opposizione totale a qualsiasi forma di redistribuzione fiscale e l’illusione che essere pro business significhi essere pro market.
La prima è la scelta ideologicamente più costosa. I repubblicani sono il partito antitasse. Come possono accettare un aumento fiscale? Innanzitutto, perché è inevitabile. Con un deficit pauroso e un debito crescente, l’opposizione a ogni aumento della pressione fiscale diventa fiscalmente irresponsabile. In secondo luogo perché è il male minore. La globalizzazione e la terziarizzazione dell’economia americana hanno contribuito fortemente alla crescente disuguaglianza dei redditi. Se una potenza manifatturiera ha bisogno di una folta schiera di buoni (e quindi ben pagati) operai, una potenza basata sui servizi si accontenta di avere pochi geni che disegnano gli i-phone e guadagnano milioni. Questo riduce le opportunità di miglioramento economico per chi non è tra quei pochi geni. Se in una generazione il reddito della maggior parte degli americani aumenta solo del 17%, il sogno americano di un continuo progresso viene a infrangersi. Il contratto sociale su cui si basa il funzionamento dell’economia di mercato non regge più e nasce la domanda di protezionismo e interventismo economico. La redistribuzione fiscale diventa allora il male minore per evitare il protezionismo e altri vincoli al mercato. Se i repubblicani hanno a cuore il mercato devono trovare dei meccanismi di protezione per la fetta crescente della popolazione che dal mercato perde. Questo non significa sostenere i crescenti aumenti fiscali proposti dai democratici che stanno innalzando le aliquote verso il 50%. Significa riconoscere che il problema esiste e va affrontato in modo serio, non rimosso.
La seconda scelta è ideologicamente più facile, ma politicamente ancora più difficile. Da partito pro market negli anni di Reagan i repubblicani si sono trasformati nel partito pro business negli anni di Bush. I due concetti non sempre coincidono.L’interesse del business establishment è quello di avere più privilegi e meno competizione, a tutto svantaggio dei consumatori. Difendere le grosse banche, che godono di fatto di una protezione statale, da una qualsiasi forma di regolamentazione, non è una scelta li-berista, ma una scelta corporativa. Opporsi al diritto degli azionisti di eleggere loro rappresentati nei consigli di amministrazione, non vuol dire essere liberisti, ma significa privilegiare l’interesse dei manager all’efficienza del mercato. Schierarsi sempre e comunque dalla parte delle imprese in qualsiasi causa antitrust non significa difendere l’efficienza economica contro l’intrusione statale,ma difendere i monopoli contro l’interesse della competizione e del mercato.
Abbandonare queste posizioni non è ide-ologicamente difficile, perché si tratta di un ritorno alle origini. Ma è politicamente costoso. dal mondo del business che viene la maggior parte dei finanziamenti e dell’intelligentia repubblicana. In questo momento, però, i repubblicani sono nella posizione ideale per farlo.Essendo all’opposizione sono meno contaminati dagli interessi del big business, che è per sua natura filo governativo. Non hanno nulla da perdere e tutto da guadagnare, non solo per il partito, ma per il paese e il mondo intero. Gli Stati Uniti sono stati l’esempio,il faro a cui molti paesi ancora oggi si rivolgono. Se questo faro si oscura, chi guiderà il mondo?