Pierluigi Battista, Corriere della sera 29/7/2009, 29 luglio 2009
ALMIRANTE, NE’ DEMONE NE’ EROE
La parabola del leader missino fuori dalle opposte mitologie
Quando Fini e il gruppo dirigente del Msi lasciarono a Fiuggi «la casa del padre», era la gigantografia di Giorgio Almirante sul palco a ricordare, tra lacrime e nostalgia, il passato che si stava abbandonando. Almirante, per tutto il gruppo dirigente che si apprestava a costruire An, era l’incarnazione stessa della storia del Msi. La continuità che si lacerava. La storia da cui bisognava emanciparsi per avere la possibilità di costruirne una interamente nuova. Un mito, più che una storia, a dir la verità. La storia vera, fatta di chiaroscuri, di forza e debolezze, di periodi smaglianti e momenti di buio e di sconfitte, è ancora tutta da scrivere. E un tassello di questa storia ci viene offerto dal libro appena uscito di Vincenzo La Russa Giorgio Almirante. Da Mussolini a Fini (edito da Mursia, pp. 256, 17).
La figura di Almirante è ancora prigioniera di due opposti stereotipi. Quello demonizzante e denigratorio che fa di Almirante l’icona del Male fascista, il «fucilatore», il «massacratore», l’uomo che non volle recidere i legami con il passato mussoliniano. Quello apologetico di una memorialistica missina che colloca Almirante e l’intera vicenda politica che si è riscaldata alla fiamma tricolore su un piedistallo da celebrare e non da criticare, da onorare e non da sottoporre a un esame spregiudicato e sincero. Il libro di La Russa aiuta a superare questo duplice impaccio, a rimettere la storiografia al posto sinora presidiato dalle opposte radicalità della mitologia e della demonologia. Rilegge la storia di Almirante con simpatia, ma senza indulgenza.
sottilmente crudele quando sottolinea che il grande leader che il Msi non riuscì ad avere si chiamava Pino Romualdi. Sembra propendere per la tesi che Almirante non ebbe un grande e decisivo ruolo nella nascita del Movimento sociale. Non nasconde incertezze e incoerenze nella scelta almirantiana della «Destra nazionale» e anzi sembra far sue le critiche che portarono una gran parte del gruppo dirigente storico missino, a metà degli anni Settanta, alla scissione di Democrazia nazionale. Accoglie il sospetto che l’autodifesa di Almirante sia stata mal condotta quando contro di lui partì la campagna sul «fucilatore». Si tratta di osservazioni scritte da La Russa con delicatezza e riguardo (tanto da sorvolare su una delle peggiori sconfitte tattiche nella storia almirantiana: la campagna antidivorzista disertata da una fetta consistente dell’elettorato missino, femminile in particolare). Ma sono pur sempre motivi che dovrebbero suscitare un’accesa discussione, tra chi oggi è approdato ad altri lidi, ma è nato politicamente nella storia del Movimento sociale.
La vera stagione di Almirante, del resto, è quella che coincide con le tragedie degli anni Settanta. Prima di quella data, l’impronta più forte era stata di Augusto De Marsanich, ma soprattutto di Arturo Michelini, nei confronti del quale l’autore del libro nasconde a malapena un’ammirazione politica e umana forse superiore a quella per il personaggio descritto nel profilo biografico. La Russa adopera a proposito di Michelini la categoria metastorica della «sfortuna »: alla fine degli anni Cinquanta stava portando a compimento il progetto di «inserimento» politico e culturale del Msi nel sistema democratico, ma ebbe la sfortuna di incappare negli scontri del luglio ”60, che trascineranno per qualche decennio il Msi nel ghetto infrequentabile del «neofascismo» estraneo all’«arco costituzionale ». Ma la «sfortuna» è un po’ come il saragattiano «destino cinico e baro»: non è sufficiente a spiegare le ragioni di una sconfitta. La sconfitta almirantiana della «Destra nazionale» (malgrado le fortune elettorali di quel periodo) invece raccontata con molto acume da La Russa. Ma è ancora da ricostruire il ruolo che Almirante ebbe nell’incanalare un mondo giovanile ribollente e vulnerabile al richiamo estremista nell’alveo di una democrazia che stava rischiando di soccombere sotto i colpi della violenza omicida, del terrorismo e delle stragi.
Certo, la parabola umana e politica di Almirante era tutta immersa nell’orizzonte del fascismo e del neofascismo. La storiografia indulgente aggiunge: era così e non poteva essere che così. Ma è un’impostazione giustificazionista esattamente speculare a quella che, sul fronte opposto, difende il Pci dall’accusa di non essere uscito dalla storia comunista prima del crollo del Muro. In politica non esiste il determinismo dell’ideologia ridotta (o dilatata, secondo i punti di vista) a codice genetico. Se Almirante non volle disfarsi fino alla fine dell’eredità fascista è perché in quell’eredità, sia pure emendata e rinnovata, vedeva la ragione stessa della sopravvivenza del suo partito. Era politicamente nato con Mussolini, non voleva morire contro Mussolini.
E nel maggio dell’88, quel doppio funerale nella Chiesa di Santa Agnese a Piazza Navona, quello di Almirante e di Pino Romualdi morto solo ventiquattr’ore prima, sancì nel modo simbolicamente più coinvolgente la fine di una storia che ancora oggi merita di essere scritta.