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 2009  luglio 29 Mercoledì calendario

CINA E INDIA IN GARA PER GLI OCEANI


Pechino accerchia il rivale fino al Golfo Persico New Delhi rompe l’assedio con un sottomarino


Una partita di scacchi cinesi. O, per parafrasare il generale-filosofo Sun Tzu (544-496 a. C.), «l’arte della guerra senza fare la guerra ». Per ora, almeno. Tra India e Cina la crescente rivalità si gioca infatti da anni sul filo della provocazione, della disputa territoriale pronta (sull’Himalaya) a trasformarsi in scontro aperto, della costruzione di alleanze che scompaginano equilibri secolari, se non mil­lenari: il Pakistan che è il miglior ami­co di Pechino e allo stesso tempo un cliente degli Stati Uniti, questi ultimi i nuovi «consulenti» di New Delhi in campo nucleare; lo Sri Lanka, goccia che cade dal Subcontinente in un Ocea­no Indiano sempre più caldo, che accet­ta l’«aiuto» di Pechino e si fa costruire una base, a Hambantota; la Birmania, da vero servitore di due padroni (è strettissima alleata di Pechino), che ce­de un porto all’India mentre il confi­nante Bangladesh apre Chittagong alla Cina.

Chi ha nostalgia del Grande Gioco, sappia che l’Asia del XXI seco­lo sa essere molto più complessa dell’inca­stro di rivalità tra le Potenze di ottocente­sca memoria. Inoltre, particolare non da po­co, i nuovi imperi in formazione posseggo­no l’arma e la tecnologia nucleare. Non parliamo soltanto di missili e di testate atomiche, comunque un dato che tra­sforma ogni «litigio» in un brivido per i vicini. Ma di strumenti in grado di tra­sformare la natura stessa dei Paesi che li costruiscono, quantomeno di come si percepiscono e di come sono percepi­ti nella regione. Come il sottomarino nucleare appena varato dall’India da­vanti a un primo ministro Manmohan Singh visibilmente soddisfatto: «Il ma­re sta diventando un elemento di estre­ma importanza – ha detto il capo del Governo di New Delhi – nel contesto della sicurezza del Paese ed è per que­sto che l’India deve stabilire la sua pre­parazione militare tenendo presente i cambiamenti in corso». Cosa questo si­gnifichi è presto detto: un sommergibi­le nucleare è in grado di navigare per mesi, se non anni, senza mai far ritor­no. In caso di guerra, anche dopo l’eventuale devastazione della madre­patria, può da solo infliggere colpi terri­bili al nemico. E l’India, che da vent’an­ni perseguiva l’obiettivo di riuscire a progettare e costruire con le proprie forze un simile strumento di guerra, in programma ha una flotta di dieci sotto­marini nucleari. Il primo l’hanno chia­mato Arihant , ovvero «distruttore di nemici», tanto per non lasciare nulla di sottinteso. E infatti, il Pakistan ha subi­to recepito il messaggio. Il varo del sot­tomarino nucleare indiano, avvenuto sabato scorso, «è un passo verso la de­stabilizzazione della regione», sostiene un comunicato emesso dalla marina militare di Islamabad che aggiunge: «Il sottomarino metterà a repentaglio la pace e l’equilibrio di tutti i Paesi che si affacciano sull’Oceano Indiano». E una postilla: possiamo costruirne uno an­che noi.

Perché New Delhi si sarebbe spinta così avanti? chiaro che, anche se il premier Singh ha detto e ripetuto che il vascello risponde a «esigenze difensi­ve », possedere un simile sottomarino significa trasformare le proprie forze di difesa in forze d’attacco. Una ragione c’è. Ed questa: l’India si sente sotto as­sedio. Il gigantesco Paese, un miliardo di abitanti e una crescita economica vi­vace nonostante la crisi mondiale, ne­gli ultimi anni ha osservato stringersi attorno al proprio territorio una «colla­na di perle» ( string of pearls ) costituita dai porti e dalle basi che i cinesi hanno costruito lungo le rotte dell’approvvi­gionamento di petrolio, dallo Stretto di Malacca al Golfo Persico, passando per l’Oceano Indiano. A queste basi, dalle quali Pechino, in caso di conflitto, po­trebbe agevolmente colpire l’India, si aggiungono le strade e gli oleodotti di terra che attraversano, a nord, il Kash­mir sotto controllo del Pakistan e, a sud-est, la Birmania.

Confronto economico o confronto militare? L’India ricorda ancora con senso di umiliazione il breve, ma san­guinoso conflitto imposto dalla Cina di Mao a Nehru nel 1962. Due Paesi allora tecnicamente alleati – entrambi aderi­vano al movimento dei non allineati’ e in via di sviluppo, arrivarono a farsi la guerra ufficialmente per questioni di frontiera. In realtà perché si temevano e desideravano «contenere» l’espansio­nismo del rivale. Oggi, la Cina è un Pae­se che ha abbandonato l’ideologia per la prassi del mercato. Si è arricchita e ha allargato la sfera di interessi ben ol­tre le proprie frontiere: le sue aziende mettono radici in Africa e in Sudameri­ca, da dove riforniscono il territorio metropolitano di materie prime indi­spensabili a nutrire il motore dell’eco­nomia. L’India, ugualmente, anche se per strade differenti, ha imboccato la strada della modernizzazione. La più grande democrazia del mondo comin­cia ad avere le stesse esigenze del po­tente vicino e interessi sempre maggio­ri al di là dei propri confini. Ovvio che la «collana di perle» sia vista come un cappio pronto a stringersi. Il paradosso è che India e Cina continuano a fare af­fari tra di loro. L’interscambio commer­ciale, nel 2008, ha superato i 51 miliar­di di dollari, con un incremento del 37 per cento sul 2007. Non manca la coo­perazione nel settore strategico, le eser­citazioni comuni antiterrorismo (di­cembre 2008). Eppure, come nota Yang Dali, docente di Scienze politiche all’Università di Chicago, «si può esse­re amici e allo stesso tempo farsi la guerra».