Domenico Quirico, La stampa 28/7/2009, 28 luglio 2009
IL BOTANICO RAMPANTE DEI TROPICI
La foresta tropicale, folta e densa: da noi la biologia si manifesta con ordine e disciplina, qui le querce, là i pini, altrove i faggi. Perfino nei boschi misti regnano ordine ed equilibrio. Ai tropici no; la biologia sembra in preda alla follia, a un delirio selvaggio di generazione, di moltiplicazione. Si è colpiti da una sovrabbondanza lussureggiante ed invadente, dall’incessante esplodere di una massa verde vigorosa e alitante, ogni particella albero cespuglio liana rampicante, dilagando inerpicandosi l’una sull’altra stimolandosi e eccitandosi a vicenda si abbarbica, intreccia e accoppia che solo la lama affilata e una fatica da forzati può dividerla.
Francis Hallé, botanico di 71 anni, ne aveva 22 quando ha scoperto la foresta ad Abidjan, in Costa d’Avorio per la tesi di laurea. E poi sono venuti il Congo e il Gabon. Molto tempo è passato da allora, ma lui è sempre più convinto: l’uomo discende davvero dall’albero, è quello il suo nido, rifugio, ha modellato il corpo che ne è la conseguenza, con il pollice opposto alle altre dita per arrampicarsi, gli occhi vicini e non laterali come negli altri animali, per vedere i rilievi.
«Capire l’albero vuol dire compiere una rivoluzione intellettuale. E’ un essere allo stesso tempo unico e multiplo! l’uomo possiede un solo genoma stabile. Negli alberi si trovano forti differenze genetiche secondo le branche: ciascuna può avere il suo genoma, l’albero non è un singolo ma una colonia come una scogliera di corallo».
Quelle foreste immense della sua giovinezza sono sempre più slabbrate, moribonde, davanti all’avanzare dell’avidità dell’uomo figlio immemore, stanno rannicchiate come la vittima davanti al ladro. E’ stato un vecchio capo africano che ha cambiato la sua vita di scienziato. Uno di quei vecchi che stanno seduti sotto l’unico grande albero di mango dalla vecchia chioma ramificata attorno a cui si rannicchia il villaggio, eco di un tempo vegetale antico, splendente. Il vecchio capo gli insegnò a riconoscere gli alberi dalla forma, dalla loro architettura, a grande distanza senza attendere di vedere le foglie o i frutti come fanno i botanici occidentali.
Quel giorno è nato in lui il sogno di camminare, navigare sopra le foreste e non percorrerle con il naso in sù. Perché è là, in alto, dove la loro vita soffia e cresce, dove c’è una buffata di musica, il palpito lento del loro cuore. «Dal basso i boschi sono scuri, austeri, si sente l’odore delle foglie morte; tutta la vita e l’esuberanza sono lassù, dove c’è la luce e l’energia. Gli insetti sembrano gioielli, le scimmie, i lemuri che non hanno mai visto l’uomo vengono a osservare ciò che fai». Ma come percorrere quel mare senza turbarlo, senza mettere in fuga gli insetti e gli uccelli, senza scuoterlo in onde tempestose? L’elicottero? No troppo rumoroso e perturbatore con le sue colonne d’aria. Una mongolfiera? Silenziosa certo, ma in preda ai venti, impossibile restare immobili per osservare, raccogliere campioni, assorbire in sè la foresta.
Così questo Jules Vernes ha inventato la «zattera» per navigare su quel mare verde, un laboratorio di 300 metri quadri fatto di corde intrecciate e appeso a un dirigibile: a 50 metri dal suolo dove le cime dei grandi alberi fluttuano al vento. E poi sono arrivati «l’icos», un casa per i botanici-marinai un icosaedro a venti facce deposto sulla zattera; «la bulle», una scialuppa con cui un singolo può salire sulla foresta con l’aiuto di un pallone d’elio appeso a un cavo che corre per chilometri sopra la punta degli alberi.
La carta dei «mari» che Hallé ha navigato è grande, Cameroun, Gabon, Madagascar, Panama, Vanuatu, la Guyana e poi il Massiccio centrale, la foresta europea, incantevole, intima, familiare con i faggi che d’autunno sono come grossi nidi grondanti miele biondo.
Hallé ne è certo: gli alberi non muoiono, sono immortali: «L’albero più antico che conosco ha 43000 anni, un agrifoglio reale della Tasmania, il suo germoglio è sbocciato nel Pleistocene quando sulla terra arrancava l’uomo di Neanderthal! Quel germoglio è morto da molto tempo, ma la pianta, quella non muore, centinaia di tronchi si succedono su 1200 metri. La loro morte è sempre dovuta a fattori esterni, una inondazione, il freddo improvviso, un incendio, la sega del boscaiolo. Negli animali e negli uomini i geni si spengono per un meccanismo biochimico che è all’origine della scenescenza. Ci sono alberi e piante che sembrano sfuggire a questo processo grazie alla loro crescita ”ritmica”, sospesa in inverno, poi riattivano i geni estinti dalla primavera e lottano così contro la senescenza».