Massimo Gaggi, Corriere della sera 28/7/2009, 28 luglio 2009
IL REBUS DU PECHINO GRANDE CREDITORE COSTRETTO A TIFARE PER WASHINGTON
DAL NOSTRO INVIATO
NEW YORK – Duecento. In una sola settimana, quella iniziata ieri, gli Stati Uniti chiederanno a risparmiatori e governi del mondo di sottoscrivere Buoni del Tesoro Usa per oltre 200 miliardi di dollari. Un’enormità: prima dell’esplosione della crisi, in un intero anno – il 2007 – erano stati emessi «bond» federali per 350 miliardi.
Basterebbe questo dato a spiegare l’enfasi con la quale il presidente Obama ha presentato il nuovo «round» di discussioni strategiche Usa-Cina iniziato ieri a Washington. Con gli americani che tentano faticosamente di ricominciare a risparmiare, stabilità finanziaria, tenuta del dollaro e controllo dell’inflazione dipendono sempre di più dalla disponibilità degli altri Paesi a sottoscrivere titoli basati sulla valuta Usa. E qui, pur avendo più volte auspicato la nascita di strumenti monetari alternativi al dollaro, Pechino continua ad aumentare i suoi acquisti di titoli del debito statunitense: con i 30 miliardi sottoscritti in maggio, l’esposizione cinese col Tesoro di Washington ha superato la soglia degli 800 miliardi di dollari. Ormai un quarto del debito pubblico Usa detenuto all’estero è in mani cinesi.
Numeri che indicano dipendenza – la crescente dipendenza americana dai 2 trilioni di dollari di surplus valutario cinese – ma anche interdipendenza: Pechino scommette in modo così massiccio sul dollaro, nonostante la fragilità di questa moneta, perché non ha alcun interesse ad un crollo dell’economia Usa che sarebbe disastroso per il suo export e il destino dei suoi investimenti a Washington e a Wall Street.
Pechino temeva che la «corsia preferenziale » del dialogo Cina-Usa aperta dal liberista Bush in tempi di globalizzazione trionfante potesse essere chiusa da un nuovo presidente democratico più attento al rispetto dei diritti umani, che parla di libero scambio ma poi sostiene il «buy American» e che è stato eletto col sostegno dei sindacati che vedono nel commercio con l’Asia la ragione principale della rovina degli operai Usa.
Invece Obama, mostrando ancora una volta tutto il suo pragmatismo, non solo ha ripreso l’iniziativa ideata quasi tre anni fa dal ministro del Tesoro repubblicano, Henry Paulson, ma l’ha addirittura raddoppiata, affiancando a quella economica anche una fitta agenda di temi politici (dalla proliferazione nucleare alla lotta al terrorismo). E impegnando nel negoziato con una delegazione cinese di caratura sicuramente inferiore, non solo il ministro del Tesoro Tim Geithner, ma anche il Segretario di Stato, Hillary Clinton.
Lo ha fatto perché per la prima volta da quando, un secolo fa, è divenuta la potenza globale dominante, l’America si trova davanti un rivale che può condizionare in modo profondo le sue prospettive economiche. Ma anche perché si è reso conto che dal dollaro all’inquinamento, dalle regole per la finanza all’uso delle fonti di energia, le due potenze hanno interessi comuni. E, anche quando questi interessi divergono, un conflitto rischia di portare a tutti e due più danni che vantaggi. L’idea della «staffetta» tra un G8 che perde di peso e un G2 molto più snello e operativo non è solo una formuletta giornalistica: l’America sa che le sue radici sono al di là dell’Atlantico, ma da anni guarda al Pacifico per il suo futuro. E se sulle questioni strategiche – dalla Corea del Nord ai rapporti con l’Iran – c’è molto lavoro politico da fare, sulla gestione della crisi economica Cina e Usa sembrano parlare la stessa lingua: sono gli unici due Paesi che hanno reagito alla recessione globale con massicci piani di stimoli fiscali, mentre proprio lo «tsunami» finanziario ha fatto passare in seconda linea antiche controversie. Geithner da mesi non accusa più la Cina di manipolazioni valutarie perché nelle attuali condizioni di mercato la sottovalutazione del renminbi non è più il problema-chiave. E i cinesi non accusano più gli americani di minare il dollaro con l’iperindebitamento pubblico perché capiscono che, nelle attuali circostanze, non ci sono molte alternative all’ iperattivismo del Tesoro.
Il messaggio che viene dagli incontri di Washington è che, col consumatore americano ormai alle corde e quello cinese non ancora in grado di sostituirlo, le speranze di ripresa riposano soprattutto sullo sviluppo di una nuova economia dei servizi collettivi basata sulle infrastrutture, le tecnologie del risparmio energetico e quelle del disinquinamento.
Rispetto al dialogo con l’Europa, per Obama è più difficile trovare su questi temi un accordo con la Cina; ma è anche più importante, visto che i due Paesi sono i maggiori inquinatori e i maggiori consumatori di idrocarburi del mondo. Se riescono a trovare un terreno comune, tutti gli altri non potranno fare altro che seguire.
Interdipendenza Un quarto del debito pubblico americano detenuto all’estero è in mano cinese. Numeri che indicano interdipendenza