Guido Rampoldi, la Repubblica 27/7/2009, 27 luglio 2009
IN UN CLIMA DI ODIO E DI PAURA
E il Paese si prepara al voto
Per la prima volta l´elettorato potrebbe esprimere un massiccio voto di protesta
La Casa Bianca tifa per un economista, Ashraf Ghani, che promette 1 milione di posti di lavoro
Privato dei sostegni internazionali, Karzai tesse alleanze con figure controverse
Però con la piccola folla che ora gli si accalca intorno, discute, maledice insieme a lui la corruzione, si materializza un Afghanistan insolito, svincolato da obbedienze etniche o tribali, stufo, indignato, capace di un pensiero autonomo. Proprio la probabilità che questo elettorato esprima un massiccio voto di protesta giustifica non solo le modeste speranze di notorietà del colonnello Rahamani, ma anche le ambizioni di ben più poderosi sfidanti del presidente in carica, Hamid Karzai, la cui vittoria non è scontata.
Se i Taliban non riusciranno a sabotarle, saranno le prime vere elezioni nella storia afgana. Incerte come non lo furono le presidenziali del 2004, organizzate dagli americani nel modo più vantaggioso per Karzai. Oggi la sua sconfitta sarebbe accolta con sollievo al Dipartimento di Stato, dove si tifa sommessamente per Ashraf Ghani, l´economista acuto e scontroso cui Hillary Clinton ha suggerito un consulente d´eccezione, James Carville. Nel 1994 Carville condusse Bill Clinton alla Casa Bianca con l´intuizione che riassunse nel motto It´s the economy, stupid: per intendere che è l´economia, l´interesse concreto, a determinare l´elettorato. Quindici anni dopo Carville prova a far vincere Ghani applicando la stessa idea nientemeno che in Afghanistan. Non scommetteremmo sul risultato. Ghani promette un milione di posti di lavoro, ha un curriculum di alto profilo e in tv risulta convincente.
Ma in un Paese dove il 42% della popolazione vive sotto la soglia della povertà, It´s the economy, stupid andrebbe tradotto anche con più concrete e tradizionali dimostrazioni di liquidità. E forse per questo le quotazioni di Ghani sono in ribasso rispetto a quelle di rivali più solvibili, in grado di pagare sull´unghia rimborsi, ingaggi e banchetti alle centinaia che affollano i loro uffici elettorali. Il vuoto che trovo nel suo quartier generale sembra indicare che dagli Stati Uniti l´economista non ha ottenuto altro che la considerazione di Hillary e i consigli di Carville. Molto meno di quanto hanno ricevuto dall´estero i suoi rivali.
Lontano dai microfoni, ciascun candidato di peso attribuisce agli altri uno o più finanziatori stranieri. Britannici e pakistani per il presidente del parlamento Mirwais Yasini (che però si è venduto la casa per finanzare la propria campagna). Sauditi per un altro.
Indiani per un terzo. Non sfuggono a questi sospetti neppure il presidente Karzai e il suo principale sfidante, l´ex ministro degli Esteri Abdullah Abdullah. Karzai è appoggiato da capi di milizie etniche ciascuno sponsorizzato da uno Stato straniero.
Abdullah dispone di fondi notevoli, come attesta la sua rete imponente di sedi elettorali, e poichè negli anni in cui l´Alleanza del nord combatteva i Taliban, era il recettore dei finanziamenti iraniani, tutti sono convinti che i suoi benefattori siano a Teheran. Il capo della sua campagna, Fazel Sancharaki, non nega il passato («L´Afghanistan era piombato nella guerra civile e nessuno in Occidente se ne proccupava: era ovvio che cercassimo aiuti dai Paesi vicini). Ma adesso, giura, contiamo soltanto su amici afgani. In ogni caso, è scontato che tutte le potenze dell´area abbiano scommesso poste su questo o su quello, in genere puntando su più cavalli. Probabilmente anche Paesi occidentali hanno impegnato qualche somma. Ma nel complesso l´Occidente ha scelto la neutralità. Il nuovo ambasciatore statunitense, Ricciardone, assicura che il candidato di Washington è «la legalità» (della consultazioni).
Lo ha ripetuto stamane anche a Fazel Sancharaki, e lo ha convinto. «La nuova amministrazione americana - mi dice adesso l´afgano - ha capito che i presidenti imposti non funzionano».
La neutralità occidentale ha un´implicazione forte: Hamid Karzai non è più il nostro uomo a Kabul. E questo cambia le cose. Privato dei sostegni internazionali che nel 2004 lo portarono alla presidenza, Karzai ha sopperito tessendo alleanze locali con i personaggi più vari, inclusi figuri che il capo dello Stato dovrebbe combattere - comandanti dal passato criminale, poliziotti rapaci, governatori corrotti, ora tutti parte della sua macchina elettorale.
Questo tattica spregiudicata ha acuito il disagio dell´amministrazione Obama ma gli ha reso. All´inizio di luglio l´unico sondaggio gli attribuiva un vantaggio largo sui suoi principali sfidanti (31% contro il 7 di Abdullah e il 3 di Ghani).
Però da allora Abdullah sembra in rimonta, e Karzai lontano dalla maggioranza assoluta che gli è necessaria per evitare il ballottaggio, evenienza per lui molto rischiosa. Nel secondo turno, infatti, il voto contro di lui non sarebbe più disperso tra i vari sfidanti.
Dunque è probabile che non menta Yasini, il presidente del parlamento, quando mi racconta di un Karzai «molto nervoso». Il presidente non si fida degli occidentali («Non se ne è mai fidato», commenta Yasini). E chiede rassicurazione a diplomatici in visita: sospetta che americani ed europei abbiano deciso di fargli perdere le elezioni. Davvero resterete spettatori neutrali?, domanda e si domanda. Il suo rovello è comprensibile. In queste elezioni l´Occidente di fatto è anche un arbitro. E gli arbitri sono sempre sospettati di favorire l´uno o l´altro. Come? Per esempio attraverso gli osservatori internazionali. Quelli inviati dall´Unione europea sono guidati da Philippe Morillon, il generale francese che durante la guerra bosniaca fu, allo stesso tempo, il comandante delle truppe Onu e un esecutore della politica mitterandiana nell´ex Jugoslavia. Se non bastasse l´attitudine di Morillon a interpretare ruoli doppi, ad inquietare gli uomini di Karzai concorre la fama del francese, noto come un vecchio amico dell´Alleanza del Nord. E quella consorteria di ex guerrieri tagichi oggi è gran parte della macchina elettorale di Abdullah.
Come si difende, generale? «Io sono un vecchio amico dell´Afghanistan, non di questo o di quello», protesta Morillon.
«E´ vero che venni qui la prima volta su invito dell´Alleanza del nord, ma sono tornato altre otto volte. E non ho alcun problema ad essere imparziale».
Non v´è ragione per non credergli. Però è evidente che il controllo sulle elezioni può essere interpretato dagli occidentali nei modi più vari.
Un rapporto confidenziale giunto alla presidenza stima che la polizia e l´esercito afghani non riescono a garantire la sicurezza nel 18% dei seggi, perciò esposti agli attacchi dei Taliban.
Soprattutto in alcune circoscrizioni del sud e dell´est, votare sarà pericoloso per gli uomini e molto più per le donne, che rischierebbero una pallottola a tradimento se soltanto si avventurassero fuori di casa nella giornata delle elezioni. Tanto più è sospetto che le afghane risultino essersi iscritte in massa nelle liste elettorali proprio dove pare scontato il loro forzato astensionismo. Per esempio: mentre in una città sicura come Kabul le elettrici registrate sono la metà degli elettori, nell´insicura provincia di Paktika avrebbero superato largamente i maschi (come nel 2005, quando risultarono 90mila su 166mila iscritti). E laggiù perfino andare a scuola comporta rischi per le femmine. Minaccia la correttezza delle elezioni anche il consueto caos afgano, per il quale, ad esempio, nel Nuristan gli iscritti nelle liste elettorali risultano 443mila, contro una popolazione di 130mila, neonati inclusi. Dunque le irregolarità non saranno poche. Molti elettori voteranno più volte. Molte elettrici non voteranno affatto ma qualcuno compilerà le loro schede. Consapevoli, americani ed europei hanno abbassato le aspettative. Se prima volevano elezioni regolari, ora chiedono soltanto elezioni «credibili», l´aggettivo ripetuto la settimana scorsa a Kabul da due alti emissari dell´Unione europea, Javier Solana ed Ettore Sequi. Ma `credibilità´ è un criterio vago. Vi fossero brogli massicci, il più sospettato sarebbe inevitabilmente Karzai, che controllando lo Stato ha più strumenti dei suoi rivali per manipolare i risultati. Come si comporterebbero in quel caso gli occidentali? Come reagirebbero i candidati sconfitti? E gli elettori?
Scendereste in piazza, imitereste la protesta degli iraniani? domanda ai passanti il tg della Tolo, la tv afgana più seguita, ostile a Karzai. L´intervistatore non li molla finchè quelli non convengono: sì, come gli iraniani, in piazza fin quando Karzai non riconvocasse le elezioni. Uno spettacolo `iraniano´ a Kabul non contribuirebbe a convincere le nostre opinioni pubbliche che la missione della Nato sta rimettendo in sesto l´Afghanistan. E l´imbarazzo dei governi occidentali aumenterebbe se le tifoserie dei principali candidati prendessero a scontrarsi nelle strade.
C´è una certa animosità in giro. La gente di Karzai ha ammazzato uno dei nostri quadri e ne ha ferito un altro, mi racconta uno tra gli ex mujahiddin che guidano a Kabul la campagna elettorale di Abdullah. Questi reduci vengono tutti dal Panshir, una regione del nord dove, con la forza e con le minacce, impediscono a Karzai di tenere comizi.
Però finora la contesa elettorale nel complesso è stata incruenta, in tv i dibattiti sono molto professionali, i candidati si mostrano rispetto. Non è poco, in un Paese da trent´anni in guerra che pullula di armi e di armigeri.
Nei comizi si parla soprattutto della miseria, della corruzione e dei Taliban.
I principali candidati sono tutti favorevoli al negoziato con il nemico, e lasciano intendere che un accordo di pace sia raggiungibile con facilità (ma non è così). Tanto Karzai quanto il più accreditato tra i suoi sfidanti, Abdullah, annunciano che rinegozieranno con l´Alleanza atlantica i termini della presenza occidentale, per garantirsi che non vi siano più bombardamenti sommarii, `danni collaterali´ e oltraggi alle tradizioni locali (ma il comando Nato ha già provveduto a rettificare le relative procedure militari).
Karzai ed Abdullah esprimono spesso opinioni simili, sembrano più complementari che antagonisti. Cinque anni lavoravano di buon accordo nel governo e non è improbabile che in futuro tornino a collaborare. Forse per questo nel quartier generale di Abdullah Fazel Sancharaki descrive così il presidente: «Troppo erratico, ragione per cui gli afgani non gli credono più. Però, un democratico, un patriota, un politico con una visione nazionale».
Più che di un avversario sembra la descrizione di un futuro alleato.