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 2009  luglio 27 Lunedì calendario

QUEL FILM DI SOLDATI, CAPOLAVORO PERDUTO


«L’ho visto da ragazzino, mi ha insegnato tutto, non ne esistono più copie»

Presa a schiaf­f i da Glenn Ford davanti a tutti, Rita Hayworth cor­re disperata sulla terrazza, sale sul parapetto, guarda in giù e si lascia cadere nella piscina, di notte, forse per farla finita... Gran momen­to di Gilda , che oggi in televisione sarebbe giustamente interrotto dal­la pubblicità per prolungare la su­spense. Io per anni questo colpo di mélo l’ho tenuto a mente, l’ho rac­contato agli amici, l’ho arricchito di particolari. Fino a quando ho sco­perto che quella sequenza non è mai esistita, che me l’ero inventata o era uscita fuori da un altro film. Pasticci della memoria, come succe­de, dovuti all’età (ero ragazzino) e a un’unica visione senza replica per più di vent’anni.

Ho paura che adesso ci risiamo. Sento il titolo Italia piccola e mi arri­va davanti agli occhi una scena, ma­gari non tutta ben a fuoco, ma plau­sibile e anche piuttosto bella. C’è un campo di granturco (o un canneto) un po’ dopo il tramonto e un omet­to che si inoltra tra le spighe (o le canne) chiamando a gran voce il suo bambino che è uscito di casa e si è perduto. Poi cala la notte e co­mincia a piovere. Ora il bambino lo cercano in tanti, facendosi luce con le torce, zuppi d’acqua. Qualcuno di­ce al papà che lo troveranno di sicu­ro, non può essere andato lontano. Ma l’ometto si lascia cadere a terra e si mette a singhiozzare, nel buio.

Davvero c’è questa scena nel film di Mario Soldati? Gli amici, anche i più attendibili, si stringono nelle spalle, nessuno si sbilancia. Forse potrebbe stare verso la fine, o forse non c’entra per niente. Solo il bab­bo che piange può essere un indizio a favore: scelto per una parte dram­matica un grande comico della rivi­sta, sembra giusto che si sciolga in lacrime a un certo punto... Ma altro non è dato sapere. Io il film l’ho vi­sto una sola volta, quando uscì in prima visione nel 1957 e avevo dodi­ci anni finiti. Poi mi pare che sia sta­to bandito persino dalle sale parroc­chiali (per via del soggetto) e, se mai è passato in tivù, correva l’epo­ca del bianco e nero. Insomma di Italia piccola si persero le tracce quasi subito e nessuno se ne dolse. I critici erano stati feroci, il passapa­rola inviperito: sembrava giusto che calasse l’oblio.

Ma la storia è un po’ più strana.

Italia piccola non sta nascosto da qualche parte perché qualcuno se ne vergogna, non è rinchiuso in una cella refrigerata di cineteca, non è in mano a un collezionista sadico che lo proietta ai suoi cari tutte le sere in copia unica. Niente di tutto questo. Italia piccola è un film scomparso, evaporato, svanito nel nulla. Non esiste più il negativo ori­ginale né un controtipo, non c’è ne­anche una copia all’estero magari doppiata in russo, né un positivo in Italia magari a pezzi. Ne resta un quarto di rullo, pare, al Centro speri­mentale, ma improiettabile perché non entra più nella bobina.

Questo, ammettiamolo, è un po’ troppo. Non dovrebbe succedere per nessun film (o libro o quadro), bello o brutto che sia. Perciò, dal momento che mi è impedito di far­mene un giudizio più serio, dichia­ro dall’alto della mia sapienza di spettatore dodicenne che Italia pic­cola di Mario Soldati è un capolavo­ro. Questo mi sembrò allora e que­sto sia. Intanto aveva bellissimi colo­ri, e anche per i detrattori più malva­gi «un grande senso del paesag­gio ». Forse per merito della Bassa Padana che è fotogenica pure in bianco e nero ( Il grido uscì negli stessi giorni...), fu da quelle parti che cominciai a distinguere un’im­magine espressiva da una sciocca. Poi c’era la storia e c’era il cast. La storia era questa, in due parole.

Una bella ragazza figlia del capo­stazione di Arena Po (vi si fermano solo accelerati...) viene sedotta da un bellimbusto tornato da Roma e in partenza per chissà dove. Nasce il figlio della colpa ma, per evitare lo scandalo, lo si fa passare come il frutto tardivo di due vicini che vor­rebbero tanto un erede. Un giorno però, quando il marmocchio fa già la prima elementare, il seduttore ri­torna e... tutto si aggiusta per il me­glio, al finale.

Si capisce come in quegli anni, pure non freschi di neorealismo, fosse azzardato battere la strada di un melodramma meno fosco di quello in voga (Soldati è lontano da De Sica come da Matarazzo...), e si misurasse il cinema ancora col me­tro della «plausibilità» pseudo-do­cumentaria. Ma nonostante che la vicenda di Italia piccola somigli dav­vero a un fatto di cronaca, nelle ma­ni del regista diventa una rappresen­tazione musicale, dove lo spartito è la luce «falsa» degli interni, i movi­menti di macchina sofisticati, l’am­bientazione comunque seducente. Forse sbaglio (è uno spettatore di dodici anni che parla) ma il Soldati della Bassa anticipa di decenni qual­che Bertolucci, non solo quello pa­dano di Novecento ma anche della

Luna tra Roma e Sabaudia.

C’è del metodo soprattutto nella scelta degli attori, il più imbranato dei quali (il giovane Tortora) è ge­nialmente preso non dalla strada ma dalla nascente televisione. In quale altro modo si poteva bilancia­re la non-attrice imposta dal produt­tore? L’evidente improbabilità del­l’uno fa il pari con l’anonima opulen­za dell’altra. E da quella coppia così male assortita non può che nascere un figlio da affidare ad altre mani, per il suo bene.

Molti all’epoca si stupirono che i protagonisti maturi, in due parti strappacuore, venissero dal teatro comico e dialettale (la tragedia in un uomo ridicolo?). Nonostante il ri­sultato eccellente, sembrò una biz­zarria, non giovò nemmeno sul pia­no commerciale. Ma era quella la chiave per entrare nell’Italia piccola degli anni Cinquanta, dove l’appa­renza inganna la sostanza e nessu­no può dire la verità.

Allora il ragazzino dodicenne uscì dal cinema soddisfatto. Sui ma­nifesti c’era scritto: « Non è un mio film, è il mio film: Mario Soldati ». Il ragazzino capì e non capì. Ma non dubitò che quella frase fosse since­ra.