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 2009  luglio 25 Sabato calendario

”Per quarant’ anni, e fino a poco tempo fa, sarebbe stato più probabile un viaggio di Gheddafi su Saturno che in Italia” scherzava il quotidiano libico Al-Jamahiriya il 10 giugno scorso

”Per quarant’ anni, e fino a poco tempo fa, sarebbe stato più probabile un viaggio di Gheddafi su Saturno che in Italia” scherzava il quotidiano libico Al-Jamahiriya il 10 giugno scorso. Quel giorno il Colonnello arrivava a Roma. Gheddafi, accolto con grandi onori e qualche contestazione, è rimasto in Italia quattro giorni, utili a lui per sdoganarsi in Occidente e all’Italia per le opportunità economiche che offre Tripoli. Quest’anno è il 40° anniversario della ”Rivoluzione verde”: il primo settembre 1969 un gruppo di giovani ufficiali seguaci del presidente egiziano Nasser organizzano un colpo di Stato contro Re Idris, instaurano la Repubblica Araba di Libia, guidata appunto da Gheddafi, e nazionalizzano tutte le imprese. Passano alla Repubblica – definita Jamāhīriyya, letteralmente ”repubblica delle masse” – anche tutti i beni degli italiani, che avevano governato la Libia dal 1912 al 1951. Per festeggiare la ricorrenza Tripoli ha lanciato a gennaio un colossale programma di infrastrutture da 150 miliardi di euro. In quel programma le imprese italiane ”avranno la priorità” ha promesso Gheddafi il 12 giugno, incontrando circa 600 imprenditori nel palazzo di Confindustria. Alle nostre aziende sono riservati circa 13 miliardi di euro di appalti e soprattutto cinque ”zone franche” in Libia, aree ancora da definire dove gli imprenditori italiani potranno lavorare con cinque anni di esenzione fiscale delle tasse sul reddito, investimenti a fondo perduto, agevolazioni sulle utenze energetiche e telefoniche, procedure burocratiche più rapide”. Emma Marcegaglia, la presidente di Confindustria, ha parlato di ”svolta nelle relazioni bilaterali” e già prima della visita italiana di Gheddafi è andata lei stessa in Libia a verificare le opportunità delle zone franche. Al vertice con Confindustria Gheddafi ha definito gli imprenditori ”i soldati di questa epoca, pionieri della battaglia per le richieste di infrastrutture, costruzioni, cibo” e ha aggiunto: ”La gente oggi non ha bisogno di militari perché non vuole la guerra, ma le persone non possono stare senza quello che gli imprenditori sanno produrre”. Poi si è complimentato per il lavoro del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi: ”Voi siete fortunati perché il mio caro amico Berlusconi è al vostro fianco ed è completamente alleato con voi e, finché ci sarà Berlusconi al governo, le opportunità per le vostre imprese sono maggiori”. Berlusconi e Gheddafi sono amici. I due il 30 agosto 2008 hanno sancito l’alleanza tra Italia e Libia con il Trattato di Bengasi: un ”patto d’amicizia” firmato in inchiostro verde (in onore al colore della bandiera di Tripoli). Nel documento si prevede un risarcimento in dollari di 5 miliardi alla Libia per le colpe del colonialismo italiano, sodi che saranno investiti anche nella costruzione di un’ autostrada costiera che colleghi il confine egiziano e quello tunisino. Tra Italia e Libia si avvia una «ampia collaborazione economica e industriale». Lo stesso trattato avvia la lotta comune al «terrorismo, alla criminalità e alle organizzazioni che sfruttano l’immigrazione clandestina». Non che fino al 2008 i rapporti fossero inesistenti. L’Italia è da anni il primo partner commerciale della Libia – con una quota del 41% delle importazioni e il 13% delle esportazioni – il terzo investitore europeo, escludendo il petrolio, e il sesto a livello mondiale. Spiega lo storico Sergio Romano: ”dopo il colpo di Stato del 1969 e la cacciata degli italiani dal Paese nei mesi seguenti sembrarono segnare la fine degli ambiziosi progetti concepiti dall’ Italia per la riconquista economica della Libia. Ma nel giro di un anno la situazione cominciò a migliorare. In un libro recente («L’Italia e l’ ascesa di Gheddafi», Baldini Castoldi Dalai ed.) Arturo Varvelli ricorda che i tecnici e i dirigenti italiani si erano ridotti a qualche decina nel 1970, ma divennero 1530 nel 1972 e 5200 nel 1974. Dietro le affermazioni demagogiche della dirigenza libica vi era la convinzione che l’ Italia fosse, per ragioni storiche e geografiche, il partner più utile e naturale”. L’interscambio commerciale tra Italia e Libia è in forte crescita da anni. Nel 2008 è ammontato a 20 miliardi e 229 milioni di euro, in crescita di quasi il 30% rispetto al 2007. Di questi, 17 miliardi e 390 milioni sono esportazioni libiche verso l’Italia (+ 24%, soprattutto petrolio e gas), e 2 miliardi e 638 milioni di euro sono esportazioni italiane verso la Libia (+62,5%).Ad eccezione degli anni 1999 e 2005, il nostro export in Libia ha sempre registrato tassi di crescita positivi. L’Italia esporta in Libia soprattutto prodotti petroliferi raffinati, tubi e macchinari. Ma ancora nel secondo semestre del 2008 le imprese italiane erano discriminate in Libia. Alle forniture italiane e ai contratti conclusi dalle nostre aziende Tripoli chiede una commissione variabile tra lo 0,5 e il 2%. Soldi che andavano versati all’Azienda Libico-Italiana (Ali) e da questa trasferiti su un Fondo Sociale istituito nel 1998 dai due Governi per la realizzazione di opere utili allo sviluppo sociale ed economico libico e al superamento delle conseguenze del passato coloniale e bellico. Una specie di ”tassa” prima versata su base volontaria e poi resa obbligatoria. Una misura annullata dal Trattato di Bengasi, a partire dallo scorso 2 marzo. Le imprese straniere che vogliono lavorare in Libia devono registrarsi. Solo quelle italiane, però, devono ottenere oltre all’autorizzazione del ministro dell’Economia anche il via libera del Primo ministro. Lo stabilisce la legge 80 del 1970, solo parzialmente abolita nel 2003 e del tutto superata (almeno in teoria) col Trattato di Bengasi, che in pratica dovrebbe alleviare le imprese italiane da ogni tipo di discriminazione per le loro operazioni libiche. Ci sono anche altri ostacoli da superare per lavorare a Tripoli. Intanto per esportare là è necessario avere un contratto di agenzia con società libiche. Poi la legge libica impedisce di lavorare alle aziende totalmente estere che abbiano un capitale inferiore ai 5 milioni di dollari (fino a cinque anni fa erano 50 milioni) e alle joint-venture tra stranieri e libici con meno di 2 milioni di dollari di capitale. Oltre alla burocrazia c’è una serie di problemi pratici. Si legge in apertura del dossier sulle imprese italiane in Libia elaborato dall’Istituto per il commercio estero: ”Si pregano coloro che accedono a queste informazioni di considerare che in Libia non esiste un servizio postale (solo le strade principali hanno un nome e, comunque, non esistono numeri civici), per cui sulla lista allegata solo raramente viene indicato un indirizzo. Le linee telefoniche spesso sono intasate e i numeri di telefono in alcune zone vengono cambiati senza preavviso (lo stesso dicasi per i fax). Il servizio e-mail viene spesso interrotto dalle autorità libiche per «manutenzioni»”. Le difficoltà sono molte, difatti capita che gli imprenditori italiani tentino di aggirarle pagando qualche mancetta ai burocrati di Tripoli. La cosa fa molto arrabbiare Gheddafi. ”Ci sono imprese che sbagliano pensando di lavorare guadagnandosi la benevolenza dei libici – ha detto all’incontro con – ma se lo scopriamo queste imprese andranno via, vi ho avvertito”. Altro problema sono i mancati pagamenti, non rari nei rapporti economici Roma-Tripoli. Un imprenditore italiano ha chiesto spiegazioni al colonnello, che non si è turbato: ” normale che qualsiasi impresa che abbia eseguito dei lavori abbia diritto ad essere pagata. Che problema c’è?”. Adesso in Libia c’è più spazio per tutte le imprese italiane. Ma molte ci sono già da tempo. Su tutte l’Eni, che è la prima compagnia straniera per produzione, estrae 700mila barili al giorno, di cui 300mila di propria quota. Il gruppo nazionale del petrolio ha firmato il 30 settembre 1972 un accordo storico, che Sergio Romano definisce ”probabilmente il migliore accordo stipulato in quegli anni da un’azienda straniera con il regime di Gheddafi”: oltre alle operazioni sul petrolio, Tripoli ottenne dall’Italia (dopo l’autorizzazione arrivata dagli Stati Uniti) anche la fornitura di armi. Il 14 giugno, prima di ripartire, Gheddafi ha incontrato privatamente il presidente della Pirelli, Marco Tronchetti Provera, accompagnato dalla moglie tunisina Afef Jnifen, e poi Paolo Scaroni, l’amministratore delegato dell’Eni. Gheddafi aveva caldo nella sua tenda a Villa Pamphili, e ha parlato con Scaroni su delle seggiole di plastica all’aperto. ”Abbiamo parlato di progetti di intesa con la Noc (National oil company, la società energetica di Stato libica – ha spiegato Scaroni ”in particolare per quanto riguarda il gas e la destinazione dei maggiori flussi verso l’ Europa”. Il Colonnello ha anche organizzato incontri riservati con Piefrancesco Guarguaglini di Finmeccanica, Fulvio Conti di Enel, Gabriele Galateri di Genola (Telecom), Alberto Bombassei (vicepresidente di Confindustria e presidente di Brembo), Luisa Todini, esponente di Forza Italia, presidente della Todini costruzioni e vicepresidente della federazione europea delle imprese delle costruzioni. Un’azienda può mettersi al tavolo con un dittatore? Lo hanno chiesto alla Todini, che ha risposto ”come imprenditori siamo chiamati a valutare il presente e il futuro. Se guardiamo alla Storia dovremmo rifiutarci di lavorare anche con Paesi come la Cina. Per noi, grazie alla pietra tombale sul passato messa con il trattato firmato da Berlusconi, ma al quale hanno lavorato anche Prodi e D’ Alema, è un’ occasione imperdibile”. Tra le maggiori imprese italiane presenti in Libia (oltre ad Eni): Alitalia, Telecom, Finmeccanica, Bonatti, Impregilo, Fiat (con Iveco), Prysmian, Saipem. Tra le ultime maggiori commesse: la Siri (assieme alla francese Alcatel) realizzerà e metterà in funzione 7.000 chilometri di cavi di fibre ottiche (un lavoro da 161 milioni di euro); Agusta-Westland (Finmeccanica) venderà 10 elicotteri, Alenia Aermacchi (ancora Finmeccanica) i motori di 12 aerei; Impregilo costruirà 3 università per 440 milioni; Trevi un hotel Al Ghazala al centro di Tripoli. Le compagnie Tarros, Messina e Brointermed, in Libia da circa 20 anni, hanno costituito un consorzio che, in alleanza con la locale Germa Shipping Agency, dovrebbe costruire un terminale per Container presso il porto di Tripoli. Per la Marcegaglia ”la Libia potrà essere una base per conquistare anche il Maghreb e le aree sub-sahariane”. Il progetto più allettante è l’Energy City Lybia, una nuova città che nascerà a 80 chilometri a Ovest di Tripoli, vicino a Sabrata. L’Ice la definisce ”una sorta di tecnopolis, dedicata alla realizzazione di studi e ricerca su energia (petrolio e gas) e tecnologia in generale, che dovrebbe sorgere su un’area di 528 ettari per un investimento totale di 3,8 miliardi di dollari”. I partner di questo progetto sono il Social & Economical Development Fund ed il Gulf Finance House. Le imprese italiane vanno in Libia ma anche i libici puntano l’Italia. Già da tempo. Nel 1976 la Lafico (Libyan Arab Foreign Investment) entrò, su richiesta di Gianni Agnelli, nel capitale della Fiat (che era in forte crisi) con una quota iniziale di circa il 9,7%, pagata 415 milioni di dollari. L’operazione terminò dieci anni dopo – quando a causa della quota libica il presidente americano Reagan vietò alla Fiat di partecipare a una gara pubblica statunitense – con un realizzo molto vantaggioso per Tripoli. Nel 2001 Lafico tornò a Torino, prima comprando il 5,3% della Juventus (oggi ne ha il 7,5%), poi, nel 2002, acquisendo il 2% di Fiat. I proventi del petrolio libico finiscono nel Lybian Investment Authority, fondo sovrano che dispone di un capitale valutato in 65 miliardi di dollari. Lo guida Abdulhafid Zlitni che ha messo parte di quei soldi nel sistema bancario italiano e in Eni, comprandone l’1%. Ora punta anche Telecom, Enel e Impregilo. Zlitni, in Italia con Gheddafi, ha annunciato che sta ”organizzando colloqui per mettere a punto joint venture con aziende italiane” in particolare nel ”settore dell’ elettricità, delle energie rinnovabili, delle infrastrutture”. Anche Zlitni, però, ha sbagliato qualche mossa. Lo scorso 25 gennaio Sir Allen Stanford è volato a Tripoli con la fidanzata Andrea Stoelker, e ha convinto il direttore esecutivo del Lia, Mohamed Layas, a dargli 500 milioni di dollari. Stanford, hanno successivamente scoperto i detective americani, ha messo in piedi una truffa sul modello dello ”schema Ponzi” da 7 miliardi di dollari.