Mauro Bottarelli, Il Riformista 25/07/2009, 25 luglio 2009
Londra. Nel giorno in cui da Norwich North giungeva la notizia della clamorosa sconfitta del Labour a favore dei Conservatori nel turno suppletivo resosi necessario in quell collegio, il governo guidato da Gordon Brown ha dovuto affrontare anche un’altra, pesante notizia
Londra. Nel giorno in cui da Norwich North giungeva la notizia della clamorosa sconfitta del Labour a favore dei Conservatori nel turno suppletivo resosi necessario in quell collegio, il governo guidato da Gordon Brown ha dovuto affrontare anche un’altra, pesante notizia. Ovvero la contrazione del Pil britannico su base annua del 5,7 per cento da aprile 2008 - data di inizio della recessione - a oggi. Un contraccolpo del genere è il peggiore non solo dai tempi della crisi degli anni Ottanta ma anche del 1991-1992 quando la sterline fu costretta a uscire dal cosiddetto "serpente monetario" europeo a causa di una svalutazione da incubo. Ma non solo, i dati resi noti ieri parlano di una contrazione dell’economia per quest’anno tra il 3,25 e il 3,75 per cento, con il Pil destinato a crollare del 3,16 per cento. Numeri da incubo, a cui si affiancano previsioni ancora più fosche a causa dei contraccolpi che il paese e la sua economia subirano da settembre in poi quando la pandemia di "swine flu" entrerà nel pieno: contrazione dei consumi e delle vendite al dettaglio e un ulteriore colpo al Pil dovuto ad assenteismo forzato e quindi crollo della produttività. Ma non basta, visto che uno studio del think tank National Institute of Economic and Social Research ha reso noto che potrebbero volerci altri cinque anni perché l’economia del Regno Unito torni ai livelli precedenti alla recessione del 2008, mentre la disoccupazione viaggia spedita verso il 9,3 per cento, il peggiore dato da ventun’anni a questa parte. Come uscire da questa situazione è strada alquanto tortuosa, per più di una ragione. Primo, il governo è ormai dimezzato dopo lo scandalo dei rimborsi ai parlamentari e i disastrosi risultati elettorali. Lord Mandelson, ministro con delega al Business e alla City, ha detto chiaro e tondo che se il Labour vincerà le elezioni generali il prossimo anno, nei cinque successivi si taglierà a dismisura la spesa: servizi, welfare e quant’altro. Una ricetta obbligata visto che la Bank of England, conti alla mano, ha detto chiaramente al ministro delle Finanze, Alistair Darling, che un terzo stimolo fiscale è impossibile perchè comporterebbe l’esplosione del debito pubblico. I Conservatori, dal canto loro, non paiono avere ricette migliori: George Osborne, Cancelliere dello Scacchiere ombra, si limita ad annunciare generici tagli e l’abolizione del cosiddetto "red tape", ovvero i costi della burocrazia: difficile che riesca a farlo visto che in questo fallì persino Margaret Thatcher. E anche i giornali cominciano rassegnati a pensare di tornare alle vecchie misure di sempre, ovvero scommettere tutto sulla City. Il Daily Telegraph apriva infatti le proprie pagine finanziarie con un commento che appariva una sentenza già dal titolo: «Siamo onesti, se non facciamo derivati, cos’altro possiamo fare?». Il concetto era chiaro: le nostre industrie, nonostante le tentazioni di Lord Mandelson di dar vita a una sorta di Iri in salsa britannica, sono disfunzionali e non competitive rispetto agli altri paesi europei. «Non sarebbe meglio tornare ad amare la City», era la sconsolata ma lucida chiusura del pezzo. Tanto più che il risiko dell’industria automobilistica europea potrebbe vedere proprio la britannica Vauxhall, controllata da GM Europe che a sua volta controlla Opel, pagare il prezzo più alto alle operazioni di fusione e ristrutturazione in atto: oltre 5mila posti di lavoro potrebbero prendere il volo. Già ma come ripartire dalla City se il settore bancario è ancora in forte sofferenza, i mercati vivono di fiammate come quelle della scorsa settimana ma viaggiano ancora con pochissima liquidità? Inoltre, se la legislazione proposta da Francia e Germania sulla regolamentazione degli hedge funds, i fondi speculativi, passerà senza un ammorbidimento nei toni, molti di questi (l’80 per cento di quelli presenti in Europa ha sede a Londra) sono già pronti a trasferirsi armi e bagagli a Ginevra: cancellando ulteriori posti di lavoro nella City e iniezioni dei capitali ai mercati. Non è un caso che sia la Cbi, la Confindustria Britannica, che la Fsa, l’ente regolatore dei mercati e la stessa Bank of England stiano facendo pressione su Gordon Brown e Peter Mandelson perché puntino I piedi in sede comunitaria: basti pensare che i servizi finanziari (fondi, equity e quant’altro) della City contribuiscono al 9,4 per cento del Pil britannico. La stessa candidatura di Tony Blair a presidente dell’Unione parla questa lingua. In compenso la crisi sta aprendo un nuovo mercato del credito e assicurativo: quello della grande distribuzione che sta attrezzandosi per potenziare i propri rami finanziari e divenire nuovo riferimento per il risparmiatore. Soltanto Tesco, gigante della distribuzione, può già contare su 6 milioni di sterline di depositi sui conti e operatività di carte di credito e su 4,5 miliardi di sterline di deposito base: solidità totale e nessun derivato nei bilanci. Forse non è proprio necessario ricominciare «a fare derivati».