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 2009  luglio 25 Sabato calendario

Fratelli d’Italia. Sì, ma come? Lo racconta al Riformista Luca Ricolfi, intellettuale, sociologo, docente universitario

Fratelli d’Italia. Sì, ma come? Lo racconta al Riformista Luca Ricolfi, intellettuale, sociologo, docente universitario. Esperto di condizione giovanile, mercato del lavoro, processi di scolarizzazione, criminalità politica, ha contribuito a tutti i rapporti sulla condizione giovanile in Italia. Attualmente insegna Metodologia della ricerca psicosociale presso la facoltà di Psicologia dell’Università di Torino, ed è professore ordinario di Analisi dei dati. Professor Ricolfi, qual è il clima politico-culturale nel quale l’Italia si appresta a celebrare i 150 anni della sua unificazione? Di indifferenza. Né la stampa né la televisione si sono finora preoccupate di ricordare agli italiani la ricorrenza, e comunque anche lo avessero fatto non credo che il tema, di per sé, sia oggi in grado di suscitare grandi entusiasmi. Negli Stati Uniti e nel resto d’Europa il tema dell’identità nazionale eredita oggi la forza del passato mescolandola con un forte desiderio di rinnovamento. In Italia così non è. In che cosa siamo "diversi"? Siamo diversi per almeno tre motivi. Innanzitutto non siamo orgogliosi di noi, perché più o meno oscuramente sentiamo che siamo un popolo "non esemplare", per usare un eufemismo. In secondo luogo siamo un popolo rassegnato, perché sentiamo che i nostri problemi di sempre sono anche per sempre: non li risolveremo mai, o comunque non a breve. E infine siamo un popolo diviso, che è nato con un’enorme questione - la questione meridionale - e si ritrova 150 anni dopo con il "calco" di quella questione: la questione settentrionale. Federalismo, autonomia, afflati indipendentisti. A 150 anni dall’aver fatto l’Italia, quanto ancora siamo distanti dall’obiettivo di fare anche gli italiani? Più distanti che mai, quel poco di unità che abbiamo raggiunto l’abbiamo conquistata generalizzando e uniformando i comportamenti più deteriori: il clientelismo, le raccomandazioni, l’individualismo, il deficit di spirito civico, l’opportunismo, l’irresponsabilità, il vittimismo. Tra nord e sud disparità abissali di risorse, investimenti, infrastrutture e opportunità di sviluppo. Politici e amministratori locali parlano di un Meridione da sempre costretto a ricoprire il ruolo di "fanalino di coda" nella destinazione degli investimenti, in particolare quelli pubblici, per il sostegno all’economia, all’industria e allo sviluppo. Ma è davvero così? Da un certo punto di vista il Mezzogiorno non ha tutti i torti a lamentarsi. In diversi campi le regioni meridionali effettivamente ricevono risorse insufficienti, almeno in termini pro-capite. Il problema che la classe dirigente del Sud non vede, però, è che quel poco che il Mezzogiorno riceve è tantissimo in relazione a quel che produce, e inoltre viene in gran parte dissipato sotto forma di sprechi. Faccio un esempio numerico per capirsi: la regione A e la regione B hanno la medesima popolazione, ma la regione A produce 100, la regione B solo 60. A fronte di questo prodotto la Pubblica amministrazione dà 25 alla regione A e 20 alla regione B: in assoluto la regione A riceve di più (25 contro 20), ma in relazione a quel che producono è la regione B che riceve di più (20 su 60, ossia 1/3, contro 25 su 100, ossia 1/4). Non solo, ma la regione A spreca "solo" 5 su 25 (un quinto delle risorse che riceve) mentre la regione B spreca 10 su 20 (la metà di quel che riceve). Conclusione: la regione B (Sud) ha ragione di osservare che riceve solo 20, anziché 25 come la regione A, ma quest’ultima (Nord) ha tutte le ragioni di imbufalirsi ed esclamare: «Dopo 150 anni di aiuti non riuscite ancora a essere produttivi come noi, e in più dissipate quel che noi vi trasferiamo a tiolo di solidarietà, o perequazione, come è di moda dire oggi». Ecco come la questione meridionale si è capovolta in questione settentrionale. Se poi a queste asimmetrie aggiungiamo l’evasione fiscale differenziale, il quadro diventa ancora più sbilanciato: il tasso di evasione del Mezzogiorno è almeno il triplo di quello settentrionale, e va ad aggravare il cahier de doléances delle regioni del Nord. Quale strada occorre imboccare sul piano politico, economico, sociale e culturale per imprimere un’inversione di tendenza? Da cittadino potrei anche immaginare qualche strada: ad esempio cominciare, con gradualità e determinazione, a fare le 10-15 riforme economico-sociali che, da almeno un decennio, tutti gli osservatori indipendenti dicono che andrebbero fatte. Ma da (freddo) sociologo non posso nascondermi che, in realtà, non esistono vie di uscita. Qualsiasi tentativo di affrontare sul serio problemi come quello della criminalità organizzata, del parassitismo economico, o più concretamente degli sprechi e dell’evasione fiscale, susciterebbe un putiferio, e metterebbe a rischio il feticcio dell’unità nazionale. Comunque, niente paura, il rischio non sussiste. Per correrlo, infatti, l’Italia dovrebbe avere una classe dirigente coraggiosa, che avesse l’ardire di metter mano ai nostri mali di sempre. E, per fortuna di alcuni e sfortuna di altri, una tale classe dirigente non esiste, non è mai esistita, e non si intravede all’orizzonte.