Helena Janeczek, Il Riformista 18/07/2009, 18 luglio 2009
L’autunno italiano: vivere senza Ibra di Helena Janeczek Il suo nome vuol dire "d’oro". In una lingua che lui dice di non sapere bene cosa sia
L’autunno italiano: vivere senza Ibra di Helena Janeczek Il suo nome vuol dire "d’oro". In una lingua che lui dice di non sapere bene cosa sia. Lo dice in un’intervista al Times di Londra, raccontando di una tizia che gli ha chiesto «ma quello che parli tu è serbo-croato?» «Boh, è quello che parlo con i miei genitori, coi miei fratelli invece parliamo svedese». E fa subito la figura dell’animale da calcio, del ragazzo venuto su dalla strada grazie al pallone, però rimasto rozzo e ignorante come una bestia, e come in fondo è giusto che sia. Tu paghi uno perché la sua storia ce l’abbia nelle gambe e non altrove. Un sito di fan gli viene incontro, spiega che il suo nome è "bosnian". Come "bosnian" è suo padre Šefik, venuto da Bijelijna, croata sua madre Jurka, nata a Zara, ma di un villaggio di trecento anime che lascia a diciassette anni per andare a lavorare in Germania. Da lì riparte con un figlio piccolo e un divorzio alle spalle, prosegue verso nord, la Svezia è ricca, accogliente e offre sostegni a una ragazza madre, ma a Malmö non rimane a lungo sola, conosce un ragazzo con cui va a finire che si risposa. Trovano casa in un quartiere chiamato Rosengård, ossia "giardino di rose": e stavolta il nome è chiaramente in svedese. Jurka va a fare le pulizie, Šefik lavora dove capita - magazzini, dock, cantieri - e quando negli anni 90 va tutto in crisi, come guardia giurata. Rosengård è stato costruito all’epoca del boom, all’interno di un programma nazionale di sviluppo chiamato "miljonprogrammet" che doveva fornire un milione di nuove abitazioni, case per tutti e a basso costo. I palazzi tirati su, almeno quello dove capitano Šefik e Jurka, sono prefabbricati, ma c’è tanto verde intorno, asili, parchi gioco, scuole. Non è un postaccio, solo che gli svedesi ci vanno malvolentieri ad abitare, preferiscono pagare di più per le loro casette di legno senza tende né persiane, e quindi fino a quando non arrivano gli immigrati, i condomini restano mezzi vuoti. Quelli che si stabiliscono per primi, vengono dalla Turchia o dalla Jugoslavia, e fuori dal quartiere, ossia nel resto dell’Europa nord-occidentale vengono chiamati "jugo", "jugge" in svedese. Così Jurka e Šefik, jugge fra jugge in Scandinavia, scelgono di dare al secondo bambino che nasce il 3.10.1981 un bel nome comune jugoslavo. Zlatan ha tatuato all’interno delle braccia, a lettere gotiche grandi e nere, i nomi del padre e della madre, e sopra i polsi, le date di nascita dei suoi familiari: I maschi a destra - Šefik, 23.8.1951, Sapko, 30.4.1973, Alexsandar, 10.7.86; a sinistra le donne - Jurka, 16.4.1951, Sanela, 18.7.1979 - separati come in una moschea. Quando nascono i suoi figli, aggiunge al braccio dei maschi le scritte Maximilian e Vincent e i loro compleanni. Gli unici edifici degni di menzione a Rosengård sono un centro commerciale chiamato Rosengård Centrum in lettere bordò e la moschea appena fuori dal quartiere. La più grande in tutta Malmö, fornita anch’essa di asilo, asilo nido e parco giochi, ha una forma ottagonale, due minareti e una grande cupola grigia centrale, in cima la mezzaluna. Šefik Ibrahimovic, oltre a essere "bosnian" è pure "muslim", cosa che si capisce dal nome turco e dal cognome formato sulla versione araba di Abramo, ragion per cui mia madre che storpia ogni nome, si ostina a chiamare come il padrone ebreo russo del Chelsea l’attaccante dell’Inter, cosa che esaspera mio figlio. «E allora, spiegami, quale di quelli là è il tuo Abramovich?». «Ibrahimovic, nonna!» «Come?» «I-bra-hi-movic, ma tanto non lo impari…». Un quarto degli abitanti di Malmö è musulmano e fra quelli che abitano a Rosengård più di tre quarti. Zlatan si è fatto tatuare sul dietro del braccio riservato ai maschi, da spalla a gomito, il nome della stirpe - IBRAHIMOVIC - ma scritto in arabo. Secondo il sito dei suoi fan, non vuole dire che si curi molto di queste cose della religione, come immagino sarà importato poco anche a Šefik, arrivato ragazzo dalla patria socialista alla Svezia socialdemocratica, a trent’anni padre di due figli più quello di Jurka che sempre il sito calcistico definisce "christian". Jurka sgobba all’estero da quando ha diciassette anni, telefona e manda a casa pacchi e soldi, ed è già tanto che con un figlio sul groppone si è trovata un’altra volta un ragazzo jugoslavo, un marito che non beve troppo e lavora tanto. Nel 1981, quando è nato Zlatan, Rosengård contava 18.000 residenti che poi sono lievitati a 21.000, cifra che rispetto alle banlieue francesi appare un niente, e resta persino bassa in confronto alle nostre periferie - la metà di Rozzano, un quarto di Scampia - ma a Malmö sono in tutto 280.000 gli abitanti. Considerato questo, considerato che si tratta di un agglomerato urbano pianificato tutto in una volta (16.000 vivono allo Zen di Palermo, 14.000 al Corviale), capisci invece che alla fine sono tanti. Dentro alla Svezia e alla città di Malmö, non sono solo tanti, ma sono un mondo. Un mondo a parte. E questo te lo racconta pure Zlatan quando ti dice che là nel suo quartiere quelli che ci abitavano non erano svedesi al 90% e lo racconta ancor di più quando ti parla in un misto di inglese e italiano, il cui accento è sempre slavo e mai scandinavo, e quando ride cacciando il mento in avanti, alza la testa, scrolla le spalle, o quando allarga le braccia o le gambe come uno svedese non farebbe mai, nemmeno uno cresciuto in un qualsiasi quartiere popolare a maggioranza di gente del luogo. Al resto degli abitanti di Malmö, anzi a tutti gli svedesi, soltanto il nome del "giardino di rose" fa paura. «Non osavano neppure metterci piede», racconta Zlatan, «per loro eravamo tutti gangster, invece per noi non era poi così male, ci conoscevamo tutti, ci si dava una mano». Zlatan sta tutti i pomeriggi al campetto sotto casa e gioca a calcio con le sue prime scarpe rosse, comprate in saldo quando aveva cinque anni, e impara dai ragazzi più grandi, un bulgaro di nome Gagge e un macedone di nome Goran. Jurka sa dov’è, riesce anche a vederlo, affacciandosi alla finestra del sesto piano. Per cena gli urla giù «è pronto» e Zlatan sale, trangugia in fretta, torna a giocare. A Zlatan piace giocare a calcio e non gli piace stare in quella casa. Šefik e Jurka si sono separati, lei ha trovato un altro uomo, ha avuto un altro figlio, Alexsandar, e Zlatan non ha problemi con il bambino, non gli va qualcos’altro, forse il nuovo marito di sua madre. Così quando è grande abbastanza, decidono di farlo vivere col padre. Tutti i giorni dopo scuola torna al campetto, poi sale a trovare Alexsandar, Sanela e sua madre, magari prima fermandosi al secondo piano per un saluto alla vicina che l’ha curato sin da piccolo quando Jurka era impegnata o fuori a lavorare. La sera riattraversa, e se ha fame - ha sempre fame - si ferma a comprarsi un panino dal kebabaro, fa anche la spesa e mette a posto prima che rientri Šefik. Ancora oggi piovono a sprazzi a Rosengård i reporter dei giornali nazionali e esteri inclusa la Bbc, per studiare il caso più celebre ed esemplare di ghettizzazione nella Svezia socialdemocratica e aperta all’immigrazione. Descrivono il tasso di disoccupazione dieci volte più alta che nel resto del paese - oltre il 65% -, e parlano di droga, di criminalità, del fondamentalismo che dilaga. Recentemente ci sono state persino un po’ di riots: qualche auto sfasciata e qualche cassonetto o vecchio materasso messo a fuoco, un po’ di scontri con la polizia, non un granché. che i media queste storie se le bevono, quando accadono in un posto chiamato Rosengård. In Svezia campi anche senza, con i sussidi dello stato, però quando accade per decenni a famiglie intere di più generazioni, sembra che si stiano mantenendo le bestie allo zoo. Non c’è da stupirsi se certi, dopo vent’anni, non spiaccicano ancora una parola di svedese, cosa del resto non richiesta neanche agli scimpanzè. Ma quasi tutti gli inviati, come nota di colore e di speranza, aggiungono da qualche parte nei loro reportage che oggi l’idolo dei ragazzi è Zlatan Ibrahimovic, è lui che ha addirittura dato una nuova identità al suo quartiere, facendocela a venirne fuori. Il campetto in terra battuta sotto casa di Jurka da poco l’ha fatto rifare, ovviamente adesso porta il suo nome, addirittura in lettere d’oro, ma qualcuno ha subito rubato la "a" di Zlatan, e lui ne ride con orgoglio e con piacere. Non è mai stato a Malmö, Zlatan Ibrahimovic, prima che lo arruolasse il Malmö FF. Ha tredici anni e probabilmente non si accorge più di tanto che è andata a farsi fottere la Jugoslavia, che a suo padre è stato tolto il sogno di ritorno dell’emigrato, e se Jurka e Šefik cercano di mettersi in contatto con qualcuno giù al paese, se sono arrivati dei parenti profughi, Zlatan è già sulla porta dell’una o dell’altra casa, saluta, va ad allenarsi, Zlatan corre, dribbla, scarta, Zlatan dribbla e scarta quel che sta accadendo, sul orlo del disastro dei Balcani, Zlatan balla. «Zlatan», gli chiede una giornalista col forte accento milanese e il tono da maestra delle elementari «dimmi che cosa conta di più per te: calcio, donne, famiglia o amici?». «Faaamiliija», risponde Zlatan, allargando in un gesto vagamente da Gesù Cristo le sue braccia tatuate. Sono le cose che si chiedono a un calciatore. Gli chiedi se gli piacciono le macchine - «Ah, io sono pazzo» -, qual è il suo film preferito - «Scarface, Il Gladiatore» -, se guarda lo sport in tv - «Molti con palla e pure fighting» -, cos’è che gli piace di meno fisicamente e psicologicamente in una donna - «A me non piace che sta male, io voglio sempre che tutti stanno bene» - qual è il suo cibo preferito - «Pizza, hamburger, kebab» -, se ha un idolo - «Mohammed Alì». Gli chiedi quando l’ha fatto la prima volta - «Cosa? Vabbé, passiamo a un’altra domanda» - persino se da piccolo dormiva con teddy bear - «Noooh! I’m a strong guy. I’m strong official, inofficial - I’m a fuck». Ma questa l’intervistatrice, forse per via dell’inglese, non l’ha tanto capita. Non ha capito che pure una risposta scema a una domanda idiota, può dire qualcosa. Forse non se lo aspetta da Zlatan Ibrahimovic - 194 cm, 84 chili, piedi del 47- quasi due metri di cafonaggine universale che acquistano senso ed eleganza solo in gioco. Del resto, «qualcuno dei tuoi amici del quartiere è finito dentro?» o «hai perso dei parenti durante la guerra?», che cosa glielo chiederesti a fare? E se gli porresti la domanda che effetto gli fa allenarsi con uno che è stato amico di uno che ha distrutto, ammazzato e cacciato via la gente dalla città di suo padre, lui probabilmente ti direbbe «Naah! Parliamo la stessa lingua, ci piace la stessa musica (perché lui spazia dal rap alla juggemusik incluso il turbofolk di Ceca, vedova di Arkan) e in campo non si parla di politica, ma si lavora». Comunque si tiene pure la cittadinanza bosniaca, quindi dov’è il problema? Ne ma problema. Sul corpo alto quasi due metri di Zlatan Ibrahimovic si ricompongono le membra lacerate della famiglia e della Jugoslavia. Perché quando bruciavano alle sue spalle Bjielijna e Škarbnja, non si è voltato indietro, forse non sapeva manco bene verso dove, ma non importa, importa solo che correva, correva col pallone attaccato al piede, e quando tirava in porta e segnava, come Mosè se li portava fuori dal passato. Se non avesse realizzato il nome che in serbo, bosniaco e croato vuol dire "d’oro", Zlatan Ibrahimovic o qualcuno dei suoi fratelli forse avrebbe fatto un giro in galera. Forse suo padre per età, per nostalgia, per solitudine e voglia di ammazzare il tempo, avrebbe cominciato a frequentare la grande moschea bianca, l’unico edificio a Rosengard che non sia rettangolare. O i suoi fratelli. O Zlatan stesso, finito di giocare. E anche senza questo, se fosse rimasto a Rosengård avrebbe facilmente trovato una ragazza con Nike e jeans, ma in testa il velo, non una bionda ex modella svedese che è un sogno tanto straordinario quanto comprarti una Porsche, una Bmw e una Ferrari perché da grande diventerai un grande calciatore.