Carlo Trigilia, Il sole 24 ore 23/7/2009, 23 luglio 2009
SUD? NULLA VEDO, NULLA DICO
L’EQUILIBRIO DEI POTERI - Lo scambio tra politica locale e nazionale sembra essersi incrinato: oggi il baricentro si è spostato a nord di Roma, grazie anche alla Lega - UN NUOVO PARTITO - Non serve un movimento del Meridione che si basi solo sulla richiesta di maggiori fondi dal centro e che non riqualifichi la rappresentanza
Far parlare del Mezzogiorno è un obiettivo sempre più arduo: partito del Sud e Rapporto Svimez ci sono riusciti. Ma si può facilmente prevedere che questa attenzione non durerà a lungo. Perché non si parla più di Sud? Perché il problema è risolto o in via di soluzione? Si sa bene che non è così, e i dati diffusi dalla Svimez lo confermano con desolante chiarezza. Con un terzo della popolazione nazionale, il Sud produceva meno di un quarto del reddito nazionale nel 1951: sessant’anni dopo questi dati sono rimasti gli stessi. Per di più, le regioni meridionali hanno usufruito per anni degli aiuti europei, ma mentre le aree deboli sono cresciute in Europa del 3% annuo nell’ultimo decennio, il Sud è fermo a 0,3. Naturalmente, il Mezzogiorno è cambiato, non è una realtà indifferenziata e tutta stagnante o in mano alla criminalità, ci sono segni e luoghi di movimento. Nel complesso, però, le cose stanno così. La classe dirigente di un paese avanzato dovrebbe allora preoccuparsi e interrogarsi. Invece non accade. Perché?
La risposta sembra essere che anche chi ha consapevolezza e responsabilità nell’economia e nella politica (a destra come a sinistra) non crede più che il problema si possa affrontare con i mezzi e con i tempi della politica, e quindi è meglio non parlarne. D’altra parte, questa strategia del silenzio è resa possibile da un grande cambiamento che nel frattempo è intervenuto. Il Sud ha visto declinare quel ruolo chiave nel consenso per i governi che in passato ha tradizionalmente avuto. La comparsa in scena della questione settentrionale - che ha tenuto banco negli ultimi anni - e le discussioni in corso sulle prospettive di un partito del Sud riflettono tale mutamento.
Ma allora perché il Sud appare irredimibile? Certo per stanchezza e per sfiducia, dopo tanti anni di retorica meridionalistica e sprechi enormi di risorse pubbliche. vero - come ci ricorda la Svimez - che la spesa pubblica per abitante (10mila euro) è più bassa di quella del Centro-Nord (12mila). Ma questo dato va sempre letto insieme ad altri due. Anzitutto, la durata e l’entità dei trasferimenti pubblici netti verso il Sud (secondo la Banca d’Italia, dagli anni 50 lo Stato ha speso più di quanto incassava con tasse e contributi per trasferimenti alle imprese e alle famiglie e per servizi, con importi pari al 20% annuo del Pil del Sud, scesi nell’ultimo decennio intorno al 15%). Difficile, forse impossibile, trovare un’area così vasta in un paese avanzato che è stata così a lungo tanto sovvenzionata senza che si autonomizzasse.
Il secondo dato da considerare è che la spesa pro capite è più bassa, ma la sua incidenza sul Pil delle regioni meridionali è molto più alta: la spesa del settore pubblico allargato sul Pil è di oltre 20 punti percentuali superiore a quella del Centro-Nord. E al suo interno prevalgono nettamente le spese per trasferimenti a imprese e famiglie rispetto a quelle per gli investimenti pubblici (lo stato delle infrastrutture, a partire dalla Salerno-Reggio Calabria o dalle ferrovie lo testimonia abbondantemente).
Bisognerebbe allora riconoscere che da decenni l’intervento pubblico si è trasformato da soluzione in problema. La vera causa della mancata crescita (e anche del proliferare della criminalità) è la pervasività della politica nella società. Livelli di spesa svedesi con una cultura civica latino-americana hanno trasformato la politica locale in una macchina per l’acquisizione di consenso attraverso la distribuzione di benefici particolaristici. Clientelismo e assistenzialismo hanno fatto crescere un capitalismo politico, legato a protezioni ed erogazioni (si pensi per esempio alla sanità privata convenzionata) che spiazza l’imprenditorialità economica che opera sul mercato vero. Chi vuole fare impresa - e per fortuna non sono pochi - deve superare ostacoli duri: carenza di infrastrutture, servizi e formazione, condizionamenti della criminalità, discriminazione nell’accesso a risorse pubbliche se non entra in reti clientelari.
Perché la politica a livello centrale ha tollerato per decenni tutto ciò? Perché funzionava uno scambio di questo tipo: la politica locale portava voti per le forze al governo, che davano risorse ai politici meridionali chiudendo gli occhi su come venivano usati. I risultati hanno portato agli effetti perversi di uno sviluppo senza autonomia. Negli ultimi tempi, questo scambio tra governo e politica locale sembra essersi incrinato. Il baricentro politico si è più spostato a nord di Roma, grazie anche alla Lega. I politici meridionali si trovano in difficoltà e lamentano la carenza di risorse, riabbracciando la vecchia retorica meridionalistica. Ma un partito del Sud che non si ponesse come primo obiettivo essenziale quello di riqualificare la politica meridionale, e si basasse solo su richieste di maggiori fondi dal centro, potrebbe forse trovare consensi elettorali al Sud - e costringerebbe a compromessi più onerosi il governo - ma non contribuirebbe certo a far fare passi avanti per la soluzione del problema.
Insomma, la strategia del silenzio ha buone motivazioni: non solo sfiducia, ma anche timore di fare peggio. Così però essa diventa una strategia dello struzzo. Il governo - e il paese nel suo complesso, come ha ricordato il presidente Napoletano - non dovrebbero dimenticare che il Mezzogiorno resta il principale problema nazionale. Non è possibile affrontarlo senza un’azione consapevole e di lunga durata della politica nazionale. Le forze sociali sane ci sono nella società civile e nella politica meridionale, ma da sole non possono farcela. Devono essere aiutate dal centro ad aiutarsi da sole. Questo vuol dire che non ci si può limitare ad accoppiare alla strategia del silenzio quella reaganiana di "affamare la bestia". Si rischia di ammazzare la bestia.
Ma certo bisognerebbe che a destra come a sinistra si accettasse l’idea che ridimensionare aiuti e trasferimenti - legandoli a una valutazione stringente dei loro effetti per lo sviluppo - sarebbe oggi nell’interesse stesso del Sud. Si tratterebbe infatti di tagliare trasferimenti assistenziali e di sostenere come priorità la fornitura di beni e servizi collettivi. Ma una strategia nazionale di questo tipo per il Sud è compatibile con i tempi e i caratteri della nostra politica, e con il vecchio scambio tra Sud e Governo?