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 2009  luglio 21 Martedì calendario

QUELL’ACQUA CHE NON SI VEDE


Pioggia perduta, consumi e inquinamento «gonfiano» i cibi - LE SORPRESE Secondo uno studio del Barilla center for food and nutrition per produrre un chilo di carne si consumano 15.500 litri di «oro blu» - IMPATTO AMBIENTALE Non è l’unico fattore: si valuta anche il fabbisogno energetico e l’emissione di CO2, come pure gli effetti dei trasporti e della distanza

Quanta acqua serve per produrre un chilo di formaggio? Secondo un studio firmato dal centro studi Barilla center for food nutrition la risposta è cinquemila litri. Per un chilo di frumento si scende a 1.300, per il riso si arriva a 3.400. Ma il record si tocca con gli alimenti di origine animale: 4.800 litri per la carne di maiale e 15.500 per quella di manzo!
Questi valori rappresentano l’impronta idrica (termine tradotto dall’inglese water footprint) e sono riferiti al consumo reale e virtuale di acqua nelle diverse fasi della produzione. Si tratta di valori medi sottoposti a oscillazioni vistose in relazione alla zona di produzione. L’altro dato da tenere presente quando si parla di acqua riguarda le fonti di utilizzo che sono così distribuite: il 70% sono destinate all’agricoltura, il 22% all’industria e il rimanente 8% al consumo umano. Considerando la crescita demografica mondiale e l’incremento costante dei consumi alimentari è facile capire perché si parla di "oro blu" riferendosi alla risorsa più diffusa e preziosa del pianeta. Le prospettive non sono rosee perché l’acqua è un bene economico scarso. L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite prevede nel 2030 un inadeguato accesso alle fonti per la metà della popolazione mondiale (soprattutto in Africa). Per questo motivo gli studi sull’impronta idrica hanno assunto un ruolo importante.
Il calcolo è basato su tre componenti. Al primo posto troviamo la quantità di acqua piovana che evapora dal terreno durante la crescita delle colture (green virtual water). Si tratta di un fattore rilevante soprattutto per i prodotti agricoli che inglobano anche la traspirazione delle piante. Al secondo posto troviamo i consumi dovuti all’irrigazione e all’evaporazione da canali dighe e bacini artificiali (blue virtual water). In ultima posizione troviamo la quantità di liquido inquinato durante il processo produttivo (grey virtual water). Per calcolare questa componente si misura la quantità di acqua necessaria per diluire gli agenti scaturiti nella lavorazione.
Alla fine si ottiene un valore che varia in funzione della località presa in esame. Se il water footprint di un chilo di grano coltivato in Italia è pari a 2.400 litri, il valore scende a 1.600 per l’India e si riduce a soli 890 per la Cina. Come è logico aspettarsi in vetta alla classifica dell’impronta idrica troviamo gli alimenti di origine animale (carne, uova, latte...), che necessitano grandi quantità di acqua rispetto ai prodotti agricoli. Per questo motivo, quando si calcola l’impronta idrica di una persona, il valore attribuito a un vegetariano (1.500- 2.600 litri) risulta la metà rispetto a quella di un soggetto con una dieta a base di carne (3.000-5.000).
«Anche il consumo di acqua potabile comporta un’impronta idrica elevata – spiegano Valentina Niccolucci e Stefano Botto, dell’Università di Siena ”. Pochi mesi fa abbiamo realizzato uno studio in cui dimostriamo che il water footprint di una bottiglia in Pet da 1,5 litri di acqua minerale è di 3,61 l, inglobando nel calcolo l’imbottigliamento, il packaging, il trasporto al supermercato, ma soprattutto la produzione particolarmente idrovora della plastica. Facendo lo stesso calcolo sull’acqua di rubinetto si arriva a 3,63 litri. I valori sono simili perché nel calcolo dell’acqua di rubinetto bisogna considerare le perdite (media italiana 42%), e l’abitudine degli italiani di fare scorrere l’acqua del tubo prima di riempire bicchiere o la bottiglia.
L’impronta idrica è però solo uno degli aspetti da considerare quando si valuta l’impatto ambientale di un prodotto. Gli altri indicatori sono il Ger (Gross energy requirement), per misurare il fabbisogno energetico complessivo, e il Gwp (Global warming potential), per valutare il contributo dei singoli prodotti al surriscaldamento del pianeta, ora noto anche come carbon footprint.
All’interno di questi parametri ci sono anche le food miles, un’espressione usata nei paesi anglosassoni per valutare l’impatto ambientale correlato al trasporto di prodotti alimentari da un continente all’altro. Il portale britannico Organic Linker propone uno schema per valutare quanta anidride carbonica viene generata durante il trasporto. Le mele provenienti dall’Argentina percorrono 7.000 miglia per raggiungere Londra, e durante lo spostamento si liberano 2.000 chili di CO2. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista «Wired» gli spinaci, i broccoli e i piselli consumati in una città come Chicago, percorrono in media 2.400 km prima di raggiungere il punto vendita. Anche in Italia è normale trovare al supermercato mele e pere provenienti dall’Argentina che percorrono 6.000 miglia, kiwi importati dalla Nuova Zelanda, ananas dal Kenya. Ci sono anche i gamberoni pescati nel Corno d’Africa, i salmoni dalla Norvegia, i vini del Sud Africa e della California.
Secondo alcuni studi solo il 20% dell’energia consumata per produrre e commercializzare questi prodotti è da addebitare al settore agricolo. La restante quota è assorbita dalle varie fasi della filiera (trasporto, refrigerazione, lavorazione, confezionamento e distribuzione). Il sistema per il calcolo delle food miles è interessante ma risulta incompleto se riferito solo ai chilometri percorsi. Occorre considerare anche il tipo di trasporto (aereo, camion, nave, treno...), l’energia utilizzata nel processo produttivo, e poi stabilire le emissioni di anidride carbonica.
Per il momento in Francia le catene di supermercati Casino e Leclerc nella loro veste di paladine dell’ambiente, indicano sull’etichetta dei prodotti a marchio la quantità di anidride carbonica utilizzata. Leclerc utilizza un sistema di calcolo semplificato, mentre Casino ha condotto un lavoro meticoloso e considera l’intero ciclo di vita (dalle materie prime al processo di lavorazione industriale, dall’imballaggio alla distribuzione nei supermercati), tanto che il metodo di calcolo è stato validato dall’Agenzia francese dell’ambiente e dell’energia (Ademe).