Giuseppe De Rita, Corriere della Sera 17/7/2009, 17 luglio 2009
Molti di noi hanno per decenni frequentato il Mezzogiorno come il problema centrale di una malformata nazione e di malformate istituzioni statuali
Molti di noi hanno per decenni frequentato il Mezzogiorno come il problema centrale di una malformata nazione e di malformate istituzioni statuali. E quasi tutti abbiamo lavorato a far uscire la «questione meridionale» dai binari tutti politici su cui essa era stata sviluppata dai suoi padri nobili, da Giustino Fortunato a Francesco Nitti a Gaetano Salvemini. Ci sembrava che fare analisi e battaglia politiche non portasse da nessuna parte ed abbiamo cavalcato con ardore quel «nuovo meridionalismo» che sbocciò a fine anni 40 ad opera dei Saraceno, Guidotti, Morandi, Caglioti, Menichella, Cenzato. Nomi oggi dimenticati ma che in quel periodo operarono una vera e propria rivoluzione: la trasformazione dei problemi del Sud da questione politica a questione tecnico-economica, esaltando obiettivi di industrializzazione, di formazione di capitale infrastrutturale, di riforma e rilancio dell’ agricoltura, di radicale miglioramento della cultura di base e di creazione di una classe dirigente meno retorica e tesa a fare sviluppo dell’ economia reale. E, di conseguenza, siamo stati tutti fautori e/o partecipi di un big push di intervento finanziario e organizzativo di tipo «straordinario»: Cassa per il Mezzogiorno, consorzi ed enti di bonifica e sviluppo agricolo, banche di credito speciale, enti di formazione ed assistenza tecnica. Nessuno di noi si sente oggi pentito di quel rivoluzionario passaggio alla dimensione tecnico-economica della questione meridionale. Ma la maggior parte di noi avverte che quel ciclo, dopo cinquant’ anni è arrivato alla conclusione; anzi gli ultimi dieci anni (rigorosamente bipartisan), con tanti soldi buttati in interventi mal coordinati, hanno confermato che la logica tecnico-economica «non tira più». Avvertiamo così i sintomi di un ritorno ad una questione meridionale a forte valenza politica. Nessuno, infatti, può ormai sottovalutare che al Sud si va formando (o almeno tentando di formare) una rete di movimentismo politico. Forse non ci sarà un «partito del Sud», avventura prevedibilmente arrischiata; ma i segnali di fumo che vagano nei cieli, da Lombardo a Loiero a Bassolino alla Poli Bortone, fanno pensare che ci siano leader politici tentati di giuocare «politicamente» sul futuro del Mezzogiorno. Ci hanno da tempo insegnato che il movimento è uno «statu nascenti» e non si configura mai con lineamenti certi; ma intanto ci si muove e senza limiti di appartenenza o di schieramento, tanto che potrebbe darsi che a medio termine il movimentismo vada a spaccare attuali maggioranze. E forse si può prevedere che nelle prossime elezioni regionali alcuni Governatori, non in grande spolvero nel proprio campo, tentino - sull’ esempio delle liste civiche localistiche - delle liste movimentistiche e vocazionalmente trasversali. Staremo a vedere ma, nell’ isterilirsi della politica nazionale in gare congressuali e gossip, è pensabile che una vena di innovazione politica possa venire proprio dal movimentismo meridionalistico. Che è, cosa diversa, si noti, dal leghismo al Nord, visto che questo è minuta e paziente mobilitazione dei localismi, mentre al Sud sembra tornare, come prima del «nuovo meridionalismo» del 1948, una dialettica tutta politica e tutta di vertice, gestita da potenti capi di segmenti di interessi. un’ evoluzione, piaccia o non piaccia, che comunque merita attenzione. De Rita Giuseppe