Gaia Piccardi, Corriere della sera 23/7/2009, 23 luglio 2009
DAGLI AUGURI DI BERRUTI ALLE FACCE DI BOLT: COSI’ LO SPRINT ESORCIZZA LO STRESS
MILANO – Credevamo, lungo quei 100 sporchi ultimi metri, di aver già visto tutto. Il body- smoking (Carl Lewis) e la maschera d’argento (Shawn Crawford). I pugni sul petto (Justin Gatlin) e le linguacce (Maurice Greene). Il sigaro in bocca (Donovan Bailey) e l’occupazione forzata della corsia (Jon Drummond). Il petto villoso (Leroy Burrell) e l’originalissima partenza su tre appoggi per mandare in confusione gli avversari (Valeri Borzov).
Mai uno sprinter, però, aveva portato la vita – i gesti, le facce, la mimica, l’esultanza ben prima del traguardo – in corsa. Poi è arrivato Usain Bolt e nessuno si stupisce più se alla vigilia del Grand Prix di Londra, la sua ultima uscita pubblica prima del Mondiale, il pizzetto più veloce del mondo (è spuntato sotto il diluvio di Parigi e cresciuto rigoglioso nell’umidità di Londra, sua base europea) può permettersi di dire: «Il mio coach sostiene che posso correre i 100 in 9’’54 e finora tutto ciò che ha detto si è realizzato».
Lo sprint è un pianeta di eccentrici, ticcosi, perfezionisti ai confini (e oltre) del fanatismo.
Dentro quei 9’’ e spiccioli di apnea che sfuggono all’autovelox, d’altronde, qualche mania è concessa. C’è chi nella camera di chiamata si butta per terra, per raccogliere dentro di sé tutte le energie necessarie. La quiete prima della tempesta. Vietato usare materiali nuovi (scarpe ma anche canottiere), che potrebbero creare problemi di affiatamento, e di aerodinamica con se stessi. Pietro Mennea s’infilava i calzoncini all’ultimo: prima lo infastidivano, gli pesavano addosso, creavano attrito con le sensazioni pre-gara. Bolt ha bisogno delle sue smorfie, prima, dopo e, a volte, durante. Come a Pechino, quando cominciò a sbracciarsi a metà sprint. Come a Kingston, quando in piena corsa lanciata ha fatto segno a Powell di stare zitto. Gli altri sono accecati dall’acido lattico. Usain acceca con il suo show. E vince. Ha già un erede: Yohan Blake, 19 anni, 9’’93 a Parigi. Stesse smorfie, promettente velocità.
C’è una necessità fisiologica, dietro tutto quel voler mettersi in mostra prima di bruciare la gara più affascinante dell’atletica. C’è l’esigenza di essere sovreccitato prima di sovreccitare lo stadio. E una strategia intelligente che ben spiega Livio Berruti, lo studente di chimica che si mise in tasca Roma ”60: «Bolt è goliardico per esorcizzare la tensione. Manda baci e s’inventa espressioni buffe per spiazzare i rivali e dare loro l’impressione che è rilassato, che è lì per divertirsi, che i fattori esterni non lo condizionano ». Sui blocchi dei 200, all’Olimpiade che conquistò, Berruti salutò uno a uno gli avversari: «E feci loro gli auguri. Pensavano fossi roso dallo stress dei Giochi in Italia, ed io feci finta che non fosse così».
Bolt ha promesso di cambiare copione a Berlino: i suggerimenti per una nuova danza, un’esultanza inedita, piovono da ogni angolo del mondo. Gli avversari non sanno più cosa aspettarsi. A Londra sfiorerà la maschera tragica di Gay (Bolt correrà i 100 dopo il 9’’79 piovoso di Parigi, l’americano i 200; sabato saranno in pista insieme nella 4x100), la sua nemesi espressiva, l’autocontrollo assoluto, e sfiderà nello sprint puro Asafa Powell, il giamaicano che ai blocchi alza gli occhi al cielo. Se accanto hai Bolt, è il massimo che puoi concederti.