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 2009  luglio 23 Giovedì calendario

GIOVANNI GUARESCHI L’ANTICOMUNISTA CHE AMAVA I COMPAGNI


 uno dei pochi autori realmente popolari capace di parlare con semplicità a chi ha cuore

In un articolo pubblicato sull’ulti­mo numero dell’«Indice», Valenti­no Cecchetti sottolinea come, nel centenario della nascita ricorren­te l’anno scorso, molti studi abbiano ri­portato all’attenzione Giovannino Gua­reschi, autore – almeno anni fa – molto letto, ma forse messo in disparte da molta critica sia per ragioni ideologi­che, sia per il suo caratteraccio guasco­ne – simpatico ma talora, nella polemi­ca, incline a passare il segno e ad essere anche ingiusto – sia per una concezio­ne falsamente sofisticata e raffinata del­la letteratura, per un pregiudizio suppo­nente nei confronti di ciò che appare fa­cile e popolare. In realtà Guareschi, con i suoi pregi e i suoi limiti, è stato un ve­ro scrittore popolare, qualità che oggi appare particolarmente carente nella nostra narrativa. Guareschi è popolare nel senso che sa realmente parlare a molti, raccontando qualcosa di essen­ziale (ad esempio il senso dell’amicizia, il piglio picaresco, gagliardo e malinco­nico del vivere) con una semplicità ac­cessibile anche a chi non ha una pro­fonda cultura, ma non a chi non ha cuo­re e non sa cosa significhi far baldoria con gli amici o preparare il Presepe quando si avvicina il Natale.

Esattamente il contrario della fasulla popolarità costruita a tavolino di tanti odierni bestseller romanzeschi, appa­rentemente profondi per i problemi che esibiscono e in realtà superficiali per il semplicismo ancorché serioso con cui li affrontano. Forse – come di­ceva già parecchi anni fa il grande scrit­tore Manès Sperber, compagno di batta­glie di Silone e di Koestler – i «tutti» oggi non esistono veramente più, sono la folla larvale di eterodiretti sinceramente ma coattivamente portati ad apprezzare i quiz televisivi. Quando invece Peppone, in una pagina di Guare­schi, offre il suo fazzoletto rosso di par­tigiano all’isolato oratore liberale cen­trato in faccia da un pomodoro e zitti­sce i suoi compagni di partito, che sghi­gnazzano, gridando «Chi ride è un por­co », il lettore di quella pagina può esse­re veramente ognuno.

A Guareschi – anche ai suoi libri mi­nori che credo quasi nessuno legga più, come Il marito in collegio o Il destino si chiama Clotilde – dobbiamo alcuni momenti esilaranti; le autentiche risate sono fra i grandi beni della vita, un mo­mento della sua sanguigna e fraterna co­ralità, e dobbiamo essere grati a chi ce ne fa dono. Indubbiamente Guareschi si è tirato addosso un ostracismo di par­te, perché è stato, nelle sue polemiche politiche, spesso smodato e fazioso – ad esempio nei confronti di De Gasperi – anche se mai acido. Ma proprio sul piano politico ha dimostrato una quali­tà che rivela l’autentico scrittore, nel quale la creatività poetica non si lascia condizionare dall’ideologia e talora anzi la contrasta, senza proporselo ma pro­prio perciò più efficacemente.

Guareschi ha condotto una polemica anticomunista senza esclusione di col­pi; i compagni «trinariciuti» che appari­vano sul suo Candido o i comunisti beo­ti e truci evocati in campagna elettorale sono stati una delle espressioni più ag­gressive, talora viscerali dell’anticomuni­smo, in quegli anni in cui si giocavano le sorti dell’Italia e del mondo fra l’Occi­dente e l’Est sovietico. Ma se il comuni­sta attaccato da Guareschi in sede politi­ca è un mangiabambini che dovrebbe muovere a odio e a paura, nella saga di don Camillo sono i comunisti a incarna­re quell’umanità vitale, generosa, anima­ta da sentimenti schietti e perenni, in cui Guareschi stesso si riconosce.

Peppone è molto più buono e uma­namente più caldo di quanto lo sia don Camillo; è Peppone – col quale Guare­schi ha in comune non solo i baffoni di Gino Cervi – che dà voce ai sentimenti più cari all’autore, commuovendosi quando sente la canzone del Piave, commettendo anche errori ma sempre per impulso di vero uomo e mai per ma­lignità. Guareschi era appassionata­mente monarchico, ma è il comunista Peppone – quando la vecchia maestra del paese chiede morendo di essere se­polta con la bandiera sabauda sulla ba­ra e gli esponenti politici di ogni parti­to esprimono untuosamente il loro do­lente e ipocrita parere negativo – a ri­spondere secondo il cuore di Guare­schi. Egli dice loro infatti che come sin­daco li ringrazia ed è del loro parere, ma che «siccome in questo paese non comanda il sindaco ma comandano i comunisti», come capo del comunisti se ne infischia di quei pareri e dunque la maestra andrà al cimitero con la sua bandiera «e se qualcuno ha qualcosa da obiettare lo faccio volare fuori dalla finestra».

Leggendo le storie di don Camillo, verrebbe voglia di essere governati da gente come Peppone e i suoi compa­gni, il Brusco o il Bigio, piuttosto che dai loro avversari. Guareschi, nel suo scatenato anticomunismo politico, sa­peva bene di idealizzare anche quei compagni, perché non ignorava certo le violenze e pure i crimini di cui si era macchiato il comunismo in quella Bas­sa Padana a lui cara, dove il sole picchia sulle zucche della gente, e sapeva che, se nel ”48 avessero vinto i comunisti, il destino dell’Italia sarebbe stato affidato a mani diverse da quelle robuste e pa­terne di Peppone, brave a prendere a sberle chi lo merita ma anche a fare il Presepe.

Ma il Guareschi scrittore, artista, ha intuito la straordinaria carica umana del movimento comunista italiano; i suoi valori, la sua schietta vena popola­re, che poi si è perduta per tutti e di cui il «popolo» di oggi è una esangue e stu­pida parodia. Perciò si raccomanda la lettura dell’irriducibile anticomunista Giovannino Guareschi a tanti acidi, compunti e furbi revisionisti di oggi, magari ieri comunisti e oggi anticomu­nisti forse perché il comunismo non c’è più e non c’è più alcun Peppone di cui temere le sberle.