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 2009  luglio 22 Mercoledì calendario

NEL FORTINO DEI PARA’ "SCALTRO E INVISIBILE IL NEMICO E’ OVUNQUE"


La base di Farah dove sono barricati i soldati mandati dall’Italia a scrutare le aride montagne dell’Afghanistan occidentale, vista dall’aereo resta invisibile fino all’ultimo. La polvere rovente del deserto ricopre tende, container, torrette, camion, cannoni. E uomini. Gli italiani, quando hanno dovuto darle un nome, l’hanno chiamata «El Alamein» e basta vederla per capire il perché. Base «El Alamein» è al centro di una pietraia desolata, cinquanta gradi all’ombra, non un arbusto a perdita d’occhio. Qui, dietro alte mura, protetti da bastioni di cemento e sabbia, ci sono quasi quattrocento uomini, trecento paracadutisti della «Folgore» e un centinaio delle forze speciali e da questa base, qualche giorno fa era partito l’automezzo dell’esercito che è saltato su una mina improvvisata. I giovani parà impettiti che ascoltano il discorso del ministro Ignazio La Russa in visita, piangono ancora il loro amico Alessandro. «Siamo orgogliosi di voi», dice il ministro. Che non si nega un briciolo di polemica con i pacifisti che furono: «C’era chi invocava una pace unilaterale con bandiere multicolori. Il nostro affetto va a chi per la pace opera sul serio, con il tricolore, e il basco che portate con orgoglio».
La guerra continua. E anzi c’è da aspettarsi un aggravamento della situazione. Il generale Rosario Castellano, comandante della «Folgore», è stato molto esplicito nel suo briefing con il ministro: «Queste le previsioni per il mese prossimo, quando si terranno le elezioni: se a luglio abbiamo avuto 134 attacchi, ce ne aspettiamo 179». Quattro al giorno. L’escalation non ha risparmiato la regione Ovest, insomma, dove sono gli italiani. Sono raddoppiati gli attacchi (136 nell’ultimo quadrimestre, erano stati 69 l’anno scorso), gli ordigni esplosivi, i razzi lanciati contro le basi. Ma sarebbe offensivo paragonare la base di Farah al Deserto dei Tartari. Qui i nemici ci sono, eccome. «Solo che sono invisibili», spiega un baffuto maresciallo dei carabinieri. «Tutto pare normale. Ma quando si esce di pattuglia può succedere qualsiasi cosa».
 quanto accaduto qualche giorno fa al caporale Di Lisio, esperto artificiere. «Pensi che quei ragazzi da soli hanno disinnescato cinque mine», si commuove padre Adriano, il cappellano militare. Forse proprio Di Lisio si è accorto che qualcosa non andava. L’autoblindo Lince s’è fermata, ha fatto retromarcia per un metro e a quel punto è saltata in aria. Un boato pazzesco: gli attentatori, alla maniera dei mafiosi di Capaci, avevano scavato un tunnel sotto la strada e avevano piazzato settanta chili di esplosivo. Per esplodere è bastato passarci sopra. Così l’automezzo di Di Lisio è volato per aria; il tetto s’è divelto; il mitragliere è rimasto schiantato. «Ma noi non ci fermiamo e torniamo di pattuglia anche per lui», dice Fabio Barile, un altro caporale che era in quel convoglio.
Nemici invisibili, clima intollerabile, pericolo costante. Questo è l’Afghanistan di oggi. Dall’Occidente arrivano truppe addestrate e bene armate, ma si trovano di fronte una guerriglia furba, elastica, subdola. Gli «insurgens» possono essere ovunque. I loro mezzi, banali. Gli esplosivi se li fanno in casa mescolando fertilizzanti a gasolio e polvere di metallo. Gli inneschi sono ingegnose rielaborazioni di molle, copertoni, pezzi di legno, bandoni di metallo. Alla fine, l’arma migliore è l’uomo. «Le loro tecniche - racconta un colonnello del genio artificieri - sono rudimentali, ma molto efficaci. Non c’è tecnologia che tenga contro un filo di ferro. L’unica contromisura è un occhio addestrato. Bisogna scrutare il terreno, sospettare se c’è della terra smossa, o un cespuglio dove non dovrebbe, o mattoni impilati lungo la carreggiata».
E quindi ecco la vita quotidiana dei soldati. Pattuglie che procedono lente per cercare di non cadere in trappola. Addestramento di truppe afghane sperando che un giorno possano fare da soli. Intervento dal cielo con elicotteri da battaglia o osservazione con droni senza pilota. Combattimento, in aree come Bala Murghab, dove intere valli sono sotto controllo degli «insurgens». Spasmodica attività di intelligence per monitorare ogni tensione tra clan, infiltrazione di taleban o nervosismo di criminali vari. Dei duemilacinquecento soldati italiani che sono da queste parti, con turni di sei mesi, c’è chi da aprile non è mai uscito dal cancello. Oppure chi esce di pattuglia ogni mattina e sfida la morte a ogni curva.
Il «surge» ordinato da Barack Obama, cioè la grande campagna per spezzare le reni agli «insurgens», viste le immense distanze dell’Afghanistan, sembra lontano. Preoccupa piuttosto la campagna elettorale che sta entrando nel vivo. Anche se poi, ovviamente, i territori confinano uno con l’altro, i contingenti si scambiano informazioni quotidianamente, i «nemici» sgusciano di qua e di là cercando di assestare i loro colpi. «L’ultima novità ci è stata segnalata dagli americani - dice ancora il generale Castellano - e cioè aumentano le mine antiuomo». E ci sono attentatori suicidi che fingono di essere pacifici contadini, si mostrano ospitali e poi si fanno saltare quando una pattuglia è entrata in casa. Purtroppo, le regole della guerra sono queste: Obama ha ordinato ai suoi soldati di combattere casa per casa e gli «insurgens» trasformano le case in trappole.