Andrea Valdambtini, Il Riformista 22/07/2009, 22 luglio 2009
Come sentenziava Feuerbach, «l’uomo è ciò che mangia». Ed è altrettanto giusto dire che il cibo è prodotto in funzione di chi lo consuma
Come sentenziava Feuerbach, «l’uomo è ciò che mangia». Ed è altrettanto giusto dire che il cibo è prodotto in funzione di chi lo consuma. Ma a quale prezzo? Se davvero conoscessimo il peso - e spesso l’orrore - dei costi di produzione, saremmo lo stesso disposti a comprare quella bistecca o quel pollo a buon prezzo? Desolatamente risponderemmo di sì, quasi d’istinto. E non sarebbe troppo in disaccordo neppure Paul Roberts, giornalista e scrittore americano, autore de La fine del cibo (Codice, 2009, pp. 459, 28), documentatissima inchiesta che rischia davvero di farci cambiare il modo di percepire quello che mangiamo. E dunque, tornando a Feuerbach, anche quello che siamo. Uno dei problemi maggiori per la sostenibilità del ciclo alimentare è nel consumo di carne. Gli statunitensi, con 98 chili pro capite l’anno, battono tutti. Ma l’Europa e gli altri paesi industrializzati non scherzano. E tristemente le nazioni emergenti, la Cina in particolare, imitano il modello di voracità occidentale, a ritmi vertiginosi. Man mano che la ricchezza cresce, uno dei segni del benessere è testimoniato dall’aumento nel consumo di proteine animali. Ma il cibo, sembra ammonire Roberts, non è esattamente una merce come tutte le altre. I costi reali da sostenere per questa profusione di proteine animali che larga parte del mondo industrializzato si può permettere sono altissimi. Malattie per le persone, malattie dagli animali. Molti disastri del carnivorismo sfrenato sono ben noti. poi sotto gli occhi di tutti il pericolo del contagio di malattie animali, come l’aviaria, la diffusione di batteri più o meno mutanti come la salmonella. Senza dimenticare la più recente influenza suina (di cui l’autore non parla, dato che l’edizione inglese risale al 2008). Forse però le pagine più sconvolgenti de La fine del cibo sono quelle dedicate ad illustrare il perché di queste epidemie. Il motore è l’avidità, e il veicolo è il mercato, che fa disastri in nome dei profitti. Le grandi catene di distribuzione come Wal Mart, gigante statunitense dei supermercati, o le catene di ristorazione come McDonald’s, hanno cercato sempre di più un mercato delle proteine animali a basso prezzo. I risultati sono polli, vitelli e maiali imbottiti di antibiotici, che ne migliorano la qualità delle carni, ingrassati da mangimi di qualità sempre più scadente, nati per diventare macchine da carne e nient’altro. A volte i polli non riescono a trascinare un petto enormemente più grande del naturale, o vengono macellati prima ancora che le ossa siano del tutto formate. O ancora, se malati e troppo deboli, ai polli finisce con lo scoppiargli l’intestino, con il probabile risultato di contaminare la carne propria e quella di suoi consimili. Su tutto regna la contraddizione di un mondo bulimico dalla cintola in su ma anoressico sotto. La profetizzata fine della fame si è tutt’altro che verificata. Il Kenia, che ha tentato la "rivoluzione verde" negli anni 70, si ritrova con una produzione più bassa di allora. I campi di caffè del Vietnam sono oggi abbandonati. Perché il mercato pompa la produzione, che schizzando verso l’alto fa di tanto in tanto crollare i prezzi. Lasciando così sul lastrico gli agricoltori. La soluzione, secondo Roberts, non è però affidarsi al transgenico, con tutti i rischi per la nostra salute, o all’agricoltura biologica, che ha lo svantaggio di mimare i volumi di produzione di quella standard. Se si guarda all’andamento demografico del pianeta, si arriva facilmente a calcolare che supereremo, a questo tasso di crescita, i nove miliardi a metà del ventunesimo secolo. Le risorse non sono infinite, questo è il punto. Non lo è l’energia, che certo serve agli impianti agricoli come a quelli di trasformazione bovina, suina e del pollame. Non lo è l’acqua, già sfruttata oltre le sue possibilità. Ma soprattutto non lo è l’ambiente nel suo compesso e il cambiamento climatico va ad intaccare un già fragilissimo equilibrio. La terra è stressata, sembra dire Roberts. E soluzioni a buon mercato non ce ne sono.