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 2009  luglio 22 Mercoledì calendario

VERO O SOSIA? LA LEGGENDA DELL’UOMO CHE VISSE DUE VOLTE


La storia che Paul McCartney è morto nel 1966 ed è stato sostituito da un sosia sembrava avviata alla sua meritata pensione da leggenda del rock, buona solo per stupire i neoadepti alla musica Beatles, chi ci credeva più? Invece Wired l’ha ripescata, e l’ha affidata a due scienziati, Francesco Gavazzeni, informatico, e Gabriella Carlesi, medico legale, con lo scopo di validarla o smentirla per sempre. Gavezzeni e Carlesi hanno usato le stesse tecniche biometriche usate per indagare sull’attentato a Giovanni Paolo II, sull’omicidio di Ilaria Alpi, sul Mostro di Firenze. Vale a dire: misura della conformazione del cranio, della curva mandibolare, dei padiglioni auricolari, dei dettagli di dentatura e palato. Risultato: il Macca delle foto post 1966 e pre 1966 sembrerebbero non essere la stessa persona. Due che si somigliano in modo incredibile, senza dubbio, ma quello che dal 1966 ha contribuito a sciogliere i Beatles, fondato e sciolto i Wings, cantato ai Fori Imperiali, seppellito Linda McCartney, sposato e poi pagato un divorzio milionario a Heather Mills, potrebbe davvero essere un sosia.
Nessuna risposta univoca, ma da oggi c’è il dubbio scientificamente fondato che quella che per 40 anni è stata trattata come una leggenda sia invece un fatto. La prima volta che qualcuno ha detto ad alta voce al mondo: «Paul is dead» (Paul è morto) risale all’autunno del 1969. Alla radio Wknr di Detroit telefona un ascoltatore, chiede di intervenire in trasmissione. Dice di chiamarsi Tom. Come in una puntata di Chi l’ha visto al contrario, Tom avverte il pubblico che, anche se nessuno se n’è accorto, Paul McCartney è sparito. Morto. In un incidente stradale, tre anni prima, durante la lavorazione di Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club. In questa versione alternativa della storia del rock, Paul litiga con John, si arrabbia, esce, corre via, è infuriato, guida via, non si accorge di un semaforo che diventa rosso, sbanda e con la sua Austin Healey va a sbattere su un palo della luce. I Beatles avevano appena finito Rubber Soul e Revolver, con Sergent Pepper’s stavano registrando un disco che avrebbe rivoluzionato il modo di fare musica e lo sapevano. Per questo, avrebbero semplicemente pescato un sosia da un concorso e insabbiato il decesso dell’amico e compagno. Il sosia ha anche un nome: William Campbell, e un segno di riconoscimento: una cicatrice sul labbro superiore, cancellata chirurgicamente, ma ancora visibile nelle foto del libretto di Abbey Road. Questo è il contenuto della voce che passa dalla radio alle fanzine dell’Università, dalla fanzine al Michigan Daily e da lì fino alla più importante radio di New York. Non essendoci Internet, Facebook e Twitter, la notizia impiega due settimane per arrivare da Detroit alla Grande Mela. Il dj era Rob Jonge. Dire «Paul is Dead» nella sua trasmissione, ascoltata in 38 Stati, gli costò il lavoro ma consegnò l’aneddoto alla storia del rock. Da allora, ne hanno scritto romanzi, saggi, trattati, un’infinità di articoli ed ancora canzoni, fumetti, perfino i Simpson.
Ma perché 40 anni dopo, stiamo ancora parlando di questa storia? Perché, vera o falsa che sia, gli indizi sono tanti, sono divertenti e suggestivi. La prova principe, secondo i sostenitori della leggenda, è nelle copertine dei dischi. Su Abbey Road, per esempio, con la famosa foto in cui i Beatles attraversando la strada, uno dietro l’altro. Nella simbologia del Codice McCartney, i Fab Four di quella copertina stanno andando ad un funerale: quello di Paul. Il primo della fila è John Lennon. Vestito tutto di bianco, come un sacerdote. Il secondo è Ringo Starr, vestito tutto di nero, come un becchino. Il terzo è McCartney, senza scarpe. Come un cadavere. Il quarto è George Harrison, tutto in jeans. Tenuta da manovale. O da scavatore di fosse.
Anche la copertina di Sergent Pepper’s, per il dietrologo beatlesiano, contiene riferimenti alla morte il Paul. In particolare, una spilletta indossata da lui sulla quale c’è scritto Opd o Opp. La terza lettera non si vede bene perché la stoffa è piegata. Officially Pronounced Dead (dichiarato ufficialmente morto) o Ontario Provincial Police, come ha provato a spiegare McCartney. La stessa foto di copertina del disco fa pensare a un gruppo di persone raccolte intorno a una tomba appena scavata. I fiori gialli in basso a sinistra disegnano un basso, il suo strumento, e accanto un’altra composizione floreale scrive: «Paul?». Macca è l’unico che suona uno strumento nero. C’è un modellino della macchina dell’incidente. Ma soprattutto c’è un giochino che si può fare con questa copertina e che pare funzioni. Se si passa uno specchietto sulla batteria al centro della foto, perpendicolare alla scritta Lonely Hearts, si ottiene un’altra scritta: "1ONE1" (i tre Beatles vivi) X (il morto) He die (lui muore).
E poi ci sono i versi delle canzoni, i rumori sullo sfondo delle registrazioni, alcune frasi bofonchiate all’inizio o alla fine dei brani. Frammenti di un puzzle che qualcuno ha ricomposto come la confessione di un crimine, nascosta ma sotto gli occhi di tutti. «He didn’t notice that the lights had changed». Questa è A day in life. Qualcuno che non si accorge che la luce è cambiata. La luce di un semaforo, per esempio. Sempre in A Day in Life, ed anche in Revolution 9, si sentono rumori campionati che fanno pensare ad uno schianto. Di una macchina, per dire. Wednesday morning papers didn’t come, dice Lady Madonna. Nessun giornale della mattina uscì, e così la notizia fu insabbiata. Al termine di Strawberry Fields Forever, John sembra biascicare «I buried Paul». Ho seppellito Paul. Nella coda strumentale di While My Guitar Gently Weeps George grida quattro volte il nome di Paul. E infine ascoltando Revolution 9 al contrario, si sente «Turn me on, dead man».
Dal momento che la maggior parte degli indizi vengono dalla stessa produzione dei Beatles, c’è chi dice: altro che confessione. una truffa, o nel migliore dei casi una contorta sfida che Paul & Co. hanno lanciato ai fan. Ipotesi mai confermata. stato lui stesso a spiegare perché non ha mai davvero combattuto questa diceria, lasciando che attraversasse i decenni e accompagnasse gli ultimi 40 anni della sua carriera: «Non voglio interferire, non voglio rovinare queste fantasie. Alla fine, chi crede davvero io sia morto si sbaglia. Il resto non conta». Nel 1910, a San Francisco, Charlie Chaplin si iscrisse a un concorso di sosia di Charlie Chaplin, e arrivò terzo. Se è possibile quello, allora è possibile che un altro sosia abbia ingannato il mondo per 40 anni.