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 2009  luglio 21 Martedì calendario

C’ERA UNA VOLTA LA PICCOLA GRANDE AMERICA


Il muro del pianto delle piccole imprese è la bacheca di molti siti online, come, ad esempio, quello del New York Times dove, raccolti sotto la voce The dark side of the entrepreneurship - era il titolo di un post di Jay Goltz, un imprenditore di Chicago che mettendo per primo la sua storia in piazza si è costruito una solida fama di consulente di imprenditori - ci sono i loro lamenti e le grida d’aiuto. Ora più alte che mai perché, mentre - dentro e fuori l’America - si guarda con apprensione al futuro dei grandi colossi industriali e bancari, Cit Group (sul cui salvataggio Il Sole 24 Ore pubblica un articolo a pag. 35), che per le piccole e medie imprese è paragonabile a quello che sono state Fannie Mae e Freddie Mac per chi si è comprato la casa, è sull’orlo del fallimento. Con una differenza non trascurabile: le due agenzie di mutui immobiliari sono state salvate dal governo che invece, nel caso di Cit, ha deciso di non aprire la borsa. Semmai, come sembra dagli ultimi sviluppi, a tenerlo in vita ci penseranno i privati. A torto o a ragione, l’Amministrazione giudica un suo eventuale fallimento tale da non ingenerare un rischio sistemico come avrebbe potuto essere per Citibank o Aig.
Naturalmente la discrezionalità del giudizio rinvigorisce vecchie e mai sopite polemiche: perché qualcuno viene tenuto in piedi e qualcun altro impietosamente mollato al suo destino? Il fantasma di Lehman Brothers qui ha ancora molti proseliti.
Ma torniamo al muro del pianto, alle centinaia di pizzini elettronici in cui imprenditori, artigiani e commercianti di provincia sintetizzano le loro disgrazie ecumenicamente sparse negli stati ricchi e poveri del paese. Scelte a caso nello sterminato quaderno di doglianze, c’è la storia di Amir Kozinski che ha una piccola società di consulenza informatica nel Vermont, 15 impiegati e un tasso di crescita a doppia cifra fino all’estate del 2008, poi da allora un lento ma inesorabile calo dei ricavi.
Lui trasferisce subito la sede in periferia e licenzia 4 dipendenti. Non basta. Fortuna che gli arriva una grossa commessa con ordine di consegna a fine di agosto. Con l’impegnativa del committente Kozinski va alla sua banca e chiede 250mila dollari per garantirsi la continuità aziendale, ma non gli fanno neanche iniziare la pratica. Da allora ne gira quindici ricevendo la stessa risposta.
Non va meglio ai coniugi Zelman di Columbus, Ohio. Da dieci anni vendono pezzi vintage di automobili (Fiat compresa), un mercato che in America conta su uno stuolo di appassionati, e che sembra essere immune dalla crisi. Al punto che gli Zelman decidono di fare shopping e comprarsi il loro principale concorrente. Vanno in banca con il progetto e chiedono 500mila dollari. Di prim’acchito il direttore della filiale dice che averli sarà una passeggiata. Dopo un mese dalla banca arriva una lettera: «Siccome non avete un track record creditizio, non possiamo adempiere alla vostra richiesta. L’unica cosa che possiamo fare è un prestito come credito al consumo, ma per una cifra molto inferiore a quella richiesta». Gli Zelman allora rinunciano ostentando un sano buonsenso: «Non possiamo comprare qualcosa e non avere poi i soldi per gestirla».
Nel suo blog Goltz racconta la triste vicenda dell’amico John Baumeister, titolare di un’avviata impresa di componenti audio-video che dava lavoro a quaranta persone. Un giorno, lo sventurato si accorge che il ragioniere che gli tiene i conti, ha fatto figurare soldi che in cassa non ci sono. Ora, non interessa tanto il comportamento doloso che lo lascia a terra, quanto il modo in cui l’ambiente lo isola come un reietto. Quando la società del gas chiama la moglie chiedendole conto di una bolletta non pagata, la donna risponde che non ci sono più soldi e che non può nemmeno chiederne altri in banca perché per un precedente prestito ha già impegnato la casa. «Sono sicura che un’altra volta si guarderà bene dal farlo», è il commento gelido della controparte prima di staccare la fornitura.
Nel dark side ci sono storie per tutti i gusti, con un comune denominatore, anzi due: il crollo verticale dei consumi che travolge attività che, per via della concorrenza, già in tempi ordinari avevano margini risicati. Dunque magazzini stracolmi e casse vuote, o non abbastanza piene da sostenere i costi. E la chiusura dei rubinetti finanziari nel momento in cui il bisogno li vorrebbe aperti con più generosità.
In alcuni, per la verità, compare anche una buona dose di autocritica per non essersi accorti che la situazione stava precipitando o per avere sottovalutato la portata. Per tutti, lo spettro della bancarotta incombe sì come un incubo, ma anche come un approdo liberatorio, che segna un ritorno alle origini di chi da dipendente si era messo in proprio. Sempre che riesca a trovare un lavoro, ora che anche la proverbiale flessibilità dell’american worker non garantisce più nulla. In questo, almeno, Baumeister fortunato lo è stato: dopo la chiusura, nel solco del capitalismo darwiniano ha trovato impiego dal suo ex rivale numero uno.
I numeri della crisi nel suo insieme fanno accapponare la pelle: nel primo trimestre dell’anno, 14.500 aziende sono finite in bancarotta, il 64% in più rispetto allo stesso periodo del 2008. Un aumento che va di pari passo con la contrazione del credito. Cit, tanto per restare alla disgrazia del momento, nel 2008 vantava impieghi per 21,1 miliardi di dollari che nei primi sei mesi del 2009 si sono ridotti a 65 milioni. Cosa è successo lo ha raccontato la scorsa settimana il Wall Street Journal sfornando un impietoso ritratto del suo Ceo Jeffrey Peek, uno dei tanti manager che, pur svolgendo da privato un’attività di pubblico servizio, non ha resistito al miraggio dei facili guadagni. Così, con un rituale già tristemente visto, i prestiti venivano smontati e impacchettati in nuovi prodotti derivati ad alto rischio, e a loro volta venduti e rismontati alimentando la gigantesca catena di sant’Antonio che ha portato molte rispettabili istituzioni al tracollo. Peek fino all’altro ieri girava «cornuto e mazziato» con il cappello in mano, perché, nonostante le enormi spese di lobbying sostenute, a Washington deputati e senatori gli stanno voltando le spalle.
Agli imprenditori non resta dunque che guardare alla Small business administration, la controversa agenzia - nella sua storia, molti sono stati i tentativi per ridimensionarla o addirittura chiuderla, l’ultimo risale a Bush- recentemente rifinanziata da Obama con 730 milioni di dollari e un solenne impegno a farsi carico del problema: «Troppi imprenditori non hanno accesso ai capitali necessari per iniziare o sviluppare le loro attività. Troppi sogni sono infranti da una lettera delle banche che cancella o nega loro una linea di credito».
Soldi veri o su carta? In grande la polemica è uguale a quella su cui hanno brevemente battibeccato in Italia governo e Confindustria. Uguale pure nelle modalità perché, accertato che si tratti di soldi veri, burocraticamente sembra complicato accedervi, con un’evidente discrasia tra il tempo dell’erogazione e quello del bisogno. Inoltre la Sba non concede direttamente i prestiti ma lo fa attraverso le banche, che ora hanno alzato commissioni e richiesta di collaterali a garanzia.
I tentativi di facilitare l’accesso ai finanziamenti in taluni casi hanno assunto aspetti paradossali. Uno dei programmi della Sba per la ristrutturazione del debito concede soldi alle aziende solo a fronte di progetti di espansione delle attività. «Come pensano che possiamo essere così coraggiosi?», commenta un produttore di componenti per auto della desolata Detroit.
Teoricamente resterebbero le grandi banche, ma è peggio che andar di notte. Una delle più mastodontiche e malate, Bank of America, che nel 2006 era il quinto prestatore verso le piccole e medie imprese, è precipitata oggi all’86esimo posto. Le banche non solo non finanziano più piani di riorganizzazione aziendale, ma nemmeno progetti di acquisizione che consoliderebbero dimensione e qualità del cliente. La previsione, secondo la stessa Sba è catastrofica: di qui alla fine dell’anno rischia di fallire il 70% delle piccole aziende. Una cifra impressionante, che ha indotto Obama a dire che bisognerebbe dirottare alla Sba parte dei 780 miliardi di dollari del Tarp, il Troubled asset relief program, stanziati per alleviare la zavorra dei titoli tossici in portafoglio alle banche. Ma se ne parlerà, se mai si farà, non prima dell’autunno.
paolo.madron@ilsole24ore.com