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 2009  luglio 21 Martedì calendario

JAMES PANICHI PER DIARIO LUGLIO 2009

Sovranità e confino L’Australia ha deciso di rinunciare alla propria sovranità su isole e piattaforme petrolifere, vicinissime all’Asia, su cui da tempo non si applicano più alcune leggi del paese. La mossa serve a non riconoscere il diritto d’asilo a migliaia di profughi, soprattutto afgani, e legittimare una specie di enorme Cpt a 5mila chilometri dalle sue coste

Una piccola imbarcazione indonesiana carica di profughi afgani viene intercettata da due navi della marina militare australiana nei pressi di Ashmore Reef, una scogliera in pieno Oceano indiano, al centro di quelle acque che l’Australia rivendica con grande tenacia. I marinai scambiano qualche parola con l’equipaggio indonesiano e poi – all’improvviso – succede il disastro. Che sia stato un incidente o un tentativo da parte degli indonesiani di distruggere il peschereccio prima che fosse rimandato in Indonesia, nessuno lo sa. Quel che è certo, però, è che la barca che oggi conosciamo soltanto come il Seiv 36 (l’acronimo di Suspected Illegal Entry Vessel 36) è saltata in aria, uccidendo cinque persone all’istante e lasciandone in fin di vita altre dieci.
Ma sarà l’operazione di soccorso – gestita dalla Royal Australian Navy con la ormai consueta professionalità – a ricordare al mondo quanto il concetto di sovranità territoriale agli antipodi sia oggi difficile da definire. I profughi saranno divisi in due gruppi: i 13 con ferite lievi vengono trasferiti al porto di Darwin; altri 29, con ustioni più serie, vengono aerotrasportati su una piattaforma petrolifera, per poi essere trasferiti in ospedali specializzati sul continente. Sembra una differenza da poco, invece conta perché il gruppo giunto direttamente a Darwin potrà fare domanda di asilo con l’assistenza dei tribunali australiani; mentre per quelli passati dagli ”oil rigs”, l’iter burocratico sarà meno piacevole. Il motivo è semplice: per chi arriva senza visto, i confini più remoti dell’Australia sono terra nullius, zone a sovranità (e responsabilità) limitata.
Tutte le piattaforme petrolifere australiane sono oggi excised offshore places – territori esclusi (letteralmente ”espunti”) da alcune leggi federali. Quindi, chi vuole fare domanda di asilo in Australia stia attento a non inciampare su quei territori di frontiera dove le regole domestiche non vengono applicate. E non soltanto le piattaforme: oltre 4.800 isole lungo la costa settentrionale dell’Australia – dalla grandissima Melville ai più piccoli banchi di sabbia – sono oggi zone interdette, escluse quattro anni fa prima da un ordine dell’esecutivo, poi da un voto in parlamento. E un sans papiers sbarcato in un excised offshore place è come se in Australia non ci avesse mai messo piede.
 questa la realtà geografica – e politica – dell’Australia dai confini ”scorporati”. Dalle scogliere al largo di Mackay, nel Queensland, alle isole a nord di Exmouth, nel Western Australia, le leggi australiane sull’immigrazione non contano niente. Sono zone a sovranità ridotta, che permetto al governo di Canberra di definire offshore asylum-seekers tutti quei richiedenti asilo che vi mettono piede – negando così a chi giunge su imbarcazioni di fortuna molti dei diritti di cui godrebbe uno che arriva all’aeroporto di Sydney. E se è vero che l’Australia si occuperà comunque della loro domanda di asilo, i mandarini di Canberra potranno farlo senza trovarsi una corte federale tra i piedi. E c’è di più: un profugo che sbarca nei territori escissi può essere mandato dove i giornalisti non lo troveranno mai, un’isola a 5mila chilometri di distanza, in pieno Oceano indiano.
Ed è appunto qua, a Christmas Island, che inizia e finisce la politica delle frontiere escluse. Un’isola a 300 chilometri dall’Indonesia, una popolazione di etnia cinese (70 per cento) e malese (10 per cento), è questo il primo territorio che Canberra ha voluto considerare ”espunto”. Ed è qua che vengono mandati tutti i profughi che sbarcano su altre isole, grazie a un centro di detenzione nuovo di zecca, con 1.200 posti letto (costo: 230 milioni di euro). Per molti, Christmas Island sarà il purgatorio per l’Australia; per altri, è un limbo dal quale uscire non sarà facile.
Come ogni territorio di confine che si rispetti, Christams Island ha qualcosa di assurdo – una storia che la lega non all’Australia lontanissima, che ne è padrona, ma a un’Asia vicinissima. Negli anni ”50, l’isola era ancora una colonia britannica; poi Canberra ne ha chiesto la gestione. La chiave di tutto erano le miniere di concime fosfatico, un prodotto importante per gli agricoltori dell’Australia occidentale. Ma c’era anche un valore strategico: un aeroporto a pochi passi da Giacarta, quando la paura dell’espansione comunista nel Sudest asiatico era all’ordine del giorno. Ma con l’arrivo al potere del regime Suharto, il governo australiano ha dimenticao l’isola per puntare tutto sulla risoluzione di una controversia sui confini marini tra Timor e le coste settentrionali del continente – una disputa che verteva (e verte tuttora) sulla certezza dell’Australia che i confini marittimi debbano seguire la placca continentale. Questa indifferenza di Canberra significa che oggi il futuro dei 1.500 abitanti di Christmas Island è incerto: la miniera è chiusa e nessuno sa quando riaprirà; di turismo neanche a parlarne. I prodotti alimentari, poi, sono costisissimi: quando si spendono nove dollari per un cavolo o una lattuga, le ragioni per campare di riso e corn flakes sono tante. Senza il sostegno dello Stato australiano, quindi, Christmas Island sarebbe spacciata: meno male che sono arrivati i profughi a creare un po’ di lavoro.
Quando è stato eletto il governo laburista nel 2007, il primo ministro entrante, Kevin Rudd, promise di smantellare i recinti dei centri di detenzione e di permettere agli asylum-seekers di girare liberamente mentre aspettano di sapere se la loro domanda è stata accettata. E così effettivamente sono andate le cose Christmas Island; d’altra parte, dove possono scappare i detenuti? Una ricercatrice australiana dell’Università di Swinburne, Michelle Dimasi, ha parlato con i detenuti ed è convinta che per molti di loro è come essere in prigione: telecamere, luci sempre accese, guardie sospettose. ”Il centro di detenzione è in una zona remota dell’isola – spiega - e la strada può essere pericolosa nella stagione delle pioggie”. Quindi, i contatti tra detenuti e isolani sono sporadici.
Intanto, gli attivisti australiani che si occupano dei profughi afgani dicono di sentirsi traditi dal governo laburista – e non perché le condizioni non siano oggi migliorate sull’isola. la decisione di Rudd di non abolire i confini ”esclusi” dell’Australia che vedono come un afffronto. L’avvocato David Manne, direttore del Refugee and Immigration Legal Centre, considera l’escissione delle isole un ”trucco” per negare i diritti ai profughi. ”Creare un sistema legale così discriminatorio è del tutto inaccettabile, tanto a livello domestico quanto per quel che concerne le nostre responsabilità internazionali”, spiega Manne a Diario. ”Si crea una categoria di persone alla quale si negano tutte le garanzie legali che invece dovrebbero esserci. Il destino di chi sbarca negli excised territories è completamente nelle mani del governo e non è una sciocchezza, se si pensa che queste persone stanno chiedendo la nostra protezione dalla persecuzione di regimi autoritari. Per quanto riguarda l’uso di centro di detenzione ai limiti territoriali dell’Australia, beh, è un caso di out of sight, out of mind, out of rights (occhio non vede i diritti negati, cuore non duole)”.
Per l’immaginario collettivo australiano, i programmi d’immigrazione e il pericolo che i clandestini possano creare una breccia a nord fanno parte della stessa problematica. un discorso legato alla storia del paese – la lunga e (non sempre) gloriosa tradizione di immigrazione – e non è facile spiegarlo a un europeo. Per esempio, in Italia molti – a cominciare dalla classe politica - non fanno differenza tra immigrazioner legale e illegale, considerano entrambe come un problema. In Australia, invece, è difficile trovare (anche tra i più xenofobi) chi non sia a favore di un programma di immigrazione strutturato e gestito con attenzione. Persino la politica sociale d’integrazione – che va dai corsi gratuiti di lingua inglese e servizi d’interpretariato negli ospedali – da cinquant’anni gode di un consenso popolare e politco notevole. Allo stesso tempo, però, gli elettori esigono da chi li governa che l’immigrazione sia controllata, che chi arriva abbia una fedina penale pulita e i mezzi per trovare lavoro. Persino il programma di accoglienza dei rifugiati – che su basi pro capite è tra i più generosi del mondo occidentale – è controllato in ogni dettaglio: le famiglie vengono scelte da inviati consolari con l’assistenza di agenzie umanitarie nei campi profughi di tutto il mondo.
Quel che però l’elettorato non sembra disposto a tollerare è l’arrivo di clandestini via mare. Il perché potrà essere legato a questioni storiche: il timore di invasioni dall’Asia risale ai tempi coloniali, oltre che all’avanzata giapponese nella Seconda guerra mondiale. Ma c’è anche un discorso di fair play: per l’opinione pubblica, i profughi che arrivano dall’Indonesia sono ”queue-jumpers”, gente che non aspetta il proprio turno e che non vuole fare domanda ed entrare per vie regolari (e chiunque abbia visitato un supermercato australiano sa che non c’è criminale peggiore di chi non sa stare in fila). E per quanto la maggior parte dei clandestini oggi in Australia siano backpacker europei con il visto scaduto, l’idea che un governo possa – e debba – ”proteggere” le proprie coste da chi vuole venire senza essere invitato rimane una realtà politica innegabile, tanto a destra quanto a sinistra.
Checché se ne dica, l’ex primo ministro conservatore John Howard conosceva i suoi polli. Quando ordinò che fosse respinta dalla marina militare una nave norvegese, in avvicinamento a Christmas Island dopo aver salvato dei profughi in difficoltà, sapeva che alle elezioni del 2001 avrebbe raccolto voti in ogni angolo del paese. stato il famigerato ”caso Tampa” (il nome della nave) a fare rieleggere Howard e a trasformare gli arrivi ”non autorizzati” in una questione politica. Quando il primi ministro disse che le frontiere andavano protette, anche a costo di ridurre la sovranità delle leggi federali, l’elettorato gli diede ragione.
Savitri Taylor insegna diritto internazionale all’Università di LaTrobe, a Melbourne, e ha studiato l’escissione dei territori di frontiera. ”Il ragionamento dell’Australia, per citare l’allora ministro dell’immigrazione Philip Ruddock, è che da noi esisteva un meccanismo legale di lusso per i profughi – spiega la professoressa – in altre parole, c’era un sistema legale che andava ben oltre i nostri obblighi internazionali. Secondo il governo Howard, non doveva esistere alcun obbligo di dare ai richiedenti asilo un meccanismo legale come quello che avevamo. Così, abbiamo creato un sistema ”minimo” per quelli giunti in Australia in un modo che non ci piace”. Ma è una logica che non convince la studiosa: ”Abbiamo delle garanzie procedurali nelle nostre leggi e sappiamo che in qualsiasi contesto legale queste garanzie servono. Eliminare quelle protezioni e poi dire ”tanto non contano” mi sembra ingenuo, oltre che sbagliato”.
Sono considerazioni importanti, ma che non trovano alcun appiglio nelle realtà politiche del mondo post 11 settembre. A Canberra i laburisti non vogliono permettere ai conservatori di smarcarsi sulle questioni di sicurezza e non faranno mai qualcosa per smantellare la blindatura legale dei propri territori di frontiera. Che i profughi afgani sui percherecci indonesiani non siano poi così pericolosi conta poco. Quando nel 2001 John Howard disse: ”Siamo noi a decidere che entra nel nostro paese e le condizioni in cui entrano”, in tanti lo hanno coperto di critiche. Adesso però sappiamo che l’australiano medio era con lui.