Emanuele Severino, Corriere della Sera 21/07/2009, 21 luglio 2009
Ogni forma di pensiero e di azione hanno il loro fondamento inevitabile nella manifestazione del mondo, ossia nella manifestazione che include sia i cosiddetti «fenomeni esterni» sia quelli «interni»
Ogni forma di pensiero e di azione hanno il loro fondamento inevitabile nella manifestazione del mondo, ossia nella manifestazione che include sia i cosiddetti «fenomeni esterni» sia quelli «interni». E, dopo le epoche guidate dal mito, la filosofia è stata sin dall’inizio l’interprete dell’originaria manifestazione del mondo. Questa interpretazione sta al fondamento della storia dell’Occidente. Essa è la «scacchiera» dove si giocano tutti i giochi di tale storia. Anche e innanzitutto per questo motivo, lungo la storia dell’Occidente, la filosofia ha reso possibile e determinato la potenza, cioè l’agire dell’uomo: l’agire politico, morale, economico, artistico, religioso e dunque anche l’agire tecnico-scientifico. Anche quando la scienza smentisce i contenuti della manifestazione del mondo – come ad esempio con la teoria copernicana che smentisce il moto apparente del sole ”, la scienza deve presupporre tale manifestazione, ossia deve riconoscerne la ineliminabile esistenza e procedere sempre in relazione ad essa. Ma per motivi che restano per lo più celati alla coscienza che il nostro tempo ha di se stesso, il tramonto della concezione tradizionale della «verità» è inevitabile. quindi inevitabile anche il tramonto del senso tradizionale della «causalità». Ne viene che, anche all’interno del sapere scientifico, il rapporto causale non può essere altro, ormai, che una regolarità empirica, una legge statistico-probabilistica. Ad esempio, quando si sostiene che il cervello determina il funzionamento della mente, questa tesi non può esser altro, ormai, che la registrazione di certe concomitanze tra eventi cerebrali e eventi psichici: non può essere altro, appunto, che una legge statistico-probabilistica: non può essere una verità necessaria. Questa tesi è pertanto un’ipotesi sempre aperta a possibili smentite – anche se, certamente, consente di avere, su un certo gruppo di fenomeni, una potenza molto più grande di quella che gli avversari delle neuroscienze possono avere su tali fenomeni. Quando la scienza concepisce la mente come effetto del cervello, e ritiene che questo nesso causale sia necessario, si muove ancora, dunque, all’interno della concezione filosofica tradizionale della verità. Anzi, il «riduzionismo» ha un carattere essenzialmente teologico : la teologia riduce contraddittoriamente il mondo a Dio (in quanto nel mondo non può esserci nulla di cui Dio sia privo); analogamente, il riduzionismo, nell’ambito delle neuroscienze, riduce contraddittoriamente la mente al cervello. Infatti, se si sostiene che nella mente non possa esserci nulla che non sia già nel cervello, si nega contraddittoriamente la differenza tra fenomeno cerebrale e fenomeno mentale. E se si nega questa differenza la «riduzione» della mente al cervello è impossibile: appunto perché la «riduzione» implica la differenza tra ciò che è ridotto e ciò a cui lo si riduce. D’altra parte, la «mente» di cui parlano le neuroscienze e la scienza in generale è un fenomeno particolare, ossia è una parte della manifestazione del mondo – come sono una parte del mondo manifesto le funzioni cerebrali che le tecniche sempre più raffinate di visualizzazione rendono accessibili. La manifestazione del mondo è invece il tutto di cui anche i fenomeni scientifici, quelli mentali inclusi, vengono a far parte. E la manifestazione del mondo include ogni tempo. Si può parlare di un inizio, di una fine dell’universo e di un processo evolutivo dei viventi, solo se inizio, fine ed evoluzione in qualche modo appaiono, si manifestano (sia pure all’interno o nella forma del linguaggio). E poiché la manifestazione del mondo può essere chiamata la «mente originaria» – giacché il tratto essenziale della mente è il suo carattere manifestante ”, la mente originaria è la totalità che non può diventare oggetto della riflessione scientifica, ossia della riflessione che si riferisce alle parti di tale totalità. Capitalismo e democrazia si trovano su un piano inclinato lungo il quale stanno scivolando insieme alle altre grandi forze della civiltà occidentale – più o meno velocemente, con accelerazioni e rallentamenti, e anche con risalite provvisorie e visibili, e comunque urtandosi e confliggendo tra loro. Lungo l’inclinazione di questo piano il comunismo è già arrivato in fondo, ossia è tramontato, e già prima di esso erano tramontate le forme «assolutistiche» dello Stato. Vanno verso il fondo anche le religioni, sebbene questo sia per loro un tempo di risalita – tuttavia incapace di impedire il crescente abbandono, da parte dei popoli ricchi, della morale e in generale dei costumi della tradizione. Come ho avuto occasione di dire altre volte anche su queste colonne, ciò che determina l’inclinazione di quel piano è la tecnica in quanto unita all’essenza vincente e nascosta della filosofia del nostro tempo. Accade così che il capitalismo, che assume la tecnica come mezzo, divenga esso il mezzo per realizzare lo scopo che è proprio della tecnica: l’aumento indefinito della potenza. Ora, le forme della criminalità internazionale (ad esempio la mafia) sono possibili solo all’interno dell’economia capitalistica, ma insieme la indeboliscono. Quindi la tecnica, diventando scopo del capitalismo (e della democrazia eccetera), tende a distruggere ciò che, come la mafia, indebolisce la potenza del mezzo. Lo stesso discorso si può fare per le degenerazioni della democrazia. In questo senso, all’interno della storia dell’Occidente, la tecnica autenticamente intesa non è qualcosa di temibile, ma di auspicabile. L’attuale crisi economica, per quanto grave ed estesa, si produce dunque all’interno di un ben più ampio e decisivo contesto. Le discipline scientifiche che la prendono in considerazione non possono coglierne il significato appropriato: sono forme della specializzazione scientifica, dove viene metodicamente isolata una certa parte dal terreno in cui essa si trova e assume la configurazione che le compete. Mille occhi guardano qualcosa che quindi si presenta come mille cose – mille differenze. La volontà isolante è antica come l’uomo, ma all’inizio dell’Occidente è apparsa una grandiosa forma di sapere che ha tentato di essere la comprensione unitaria del tutto e della totalità delle conoscenze. La si è chiamata filosofia. Ed è ancora la filosofia a dare, nell’ultima fase del proprio sviluppo storico, la fondazione e la giustificazione di quella forma di isolamento in cui consiste la specializzazione scientifica – la quale non deve certo attendere questa fondazione e giustificazione per esistere, e tuttavia, in loro assenza, non può replicare alcunché alla critica, compiuta dalla tradizione filosofica, di alterare il proprio contenuto proprio perché lo isola dal tutto in cui esso si trova. Distruggendo irreversibilmente il proprio passato, la filosofia ha fondato l’atteggiamento isolante e quindi anche l’isolamento che costituisce la specializzazione scientifica. Eppure, al di là di tutto questo, è possibile mostrare, sia pure in prospettiva, il contesto unitario di ciò che è disperso nella specializzazione scientifica – e che peraltro, proprio per tale dispersione, è condizione essenziale della «effettiva» potenza della scienza e della tecnica. Ciò vuol dire che l’unità delle differenze’ il pensiero che sta oltre la volontà isolante – può liberarsi dai limiti per i quali si è prodotto il fallimento della volontà unificante propria della tradizione filosofica. cioè possibile guardare al di là dell’opposizione tra tradizione filosofica e distruzione filosofica di tale tradizione e, anzi, al di là dell’opposizione tra passato e presente della civiltà occidentale.