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 2009  luglio 21 Martedì calendario

Ogni forma di pensiero e di azione hanno il loro fondamento inevitabi­le nella manifestazione del mondo, ossia nella manifestazione che inclu­de sia i cosiddetti «fenomeni esterni» sia quel­li «interni»

Ogni forma di pensiero e di azione hanno il loro fondamento inevitabi­le nella manifestazione del mondo, ossia nella manifestazione che inclu­de sia i cosiddetti «fenomeni esterni» sia quel­li «interni». E, dopo le epoche guidate dal mi­to, la filosofia è stata sin dall’inizio l’interprete dell’originaria manifestazione del mondo. Que­sta interpretazione sta al fondamento della sto­ria dell’Occidente. Essa è la «scacchiera» dove si giocano tutti i giochi di tale storia. Anche e innanzitutto per questo motivo, lungo la storia dell’Occidente, la filosofia ha reso possibile e determinato la potenza, cioè l’agire dell’uomo: l’agire politico, morale, economico, artistico, religioso e dunque anche l’agire tecnico-scien­tifico. Anche quando la scienza smentisce i conte­nuti della manifestazione del mondo – come ad esempio con la teoria copernicana che smentisce il moto apparente del sole ”, la scienza deve presupporre tale manifestazione, ossia deve riconoscerne la ineliminabile esi­stenza e procedere sempre in relazione ad es­sa. Ma per motivi che restano per lo più celati alla coscienza che il nostro tempo ha di se stes­so, il tramonto della concezione tradizionale della «verità» è inevitabile. quindi inevitabi­le anche il tramonto del senso tradizionale del­la «causalità». Ne viene che, anche all’interno del sapere scientifico, il rapporto causale non può essere altro, ormai, che una regolarità em­pirica, una legge statistico-probabilistica. Ad esempio, quando si sostiene che il cervello de­termina il funzionamento della mente, questa tesi non può esser altro, ormai, che la registra­zione di certe concomitanze tra eventi cerebra­li e eventi psichici: non può essere altro, ap­punto, che una legge statistico-probabilistica: non può essere una verità necessaria. Questa tesi è pertanto un’ipotesi sempre aperta a pos­sibili smentite – anche se, certamente, consen­te di avere, su un certo gruppo di fenomeni, una potenza molto più grande di quella che gli avversari delle neuro­scienze possono avere su tali fenomeni. Quando la scienza concepisce la mente co­me effetto del cervello, e ritiene che questo nesso causale sia necessario, si muove ancora, dunque, all’interno della conce­zione filosofica tradizionale della verità. Anzi, il «riduzionismo» ha un carattere essenzial­mente teologico : la teologia riduce contraddit­toriamente il mondo a Dio (in quanto nel mon­do non può esserci nulla di cui Dio sia privo); analogamente, il riduzionismo, nell’ambito delle neuroscienze, riduce contraddittoriamen­te la mente al cervello. Infatti, se si sostiene che nella mente non possa esserci nulla che non sia già nel cervello, si nega contraddittoria­mente la differenza tra fenomeno cerebrale e fenomeno mentale. E se si nega questa diffe­renza la «riduzione» della mente al cervello è impossibile: appunto perché la «riduzione» implica la differenza tra ciò che è ridotto e ciò a cui lo si riduce. D’altra parte, la «mente» di cui parlano le neuroscienze e la scienza in generale è un feno­meno particolare, ossia è una parte della mani­festazione del mondo – come sono una parte del mondo manifesto le funzioni cerebrali che le tecniche sempre più raffinate di visualizza­zione rendono accessibili. La manifestazione del mondo è invece il tutto di cui anche i feno­meni scientifici, quelli mentali inclusi, vengo­no a far parte. E la manifestazione del mondo include ogni tempo. Si può parlare di un inizio, di una fine del­l’universo e di un processo evolutivo dei viven­ti, solo se inizio, fine ed evoluzione in qualche modo appaiono, si manifestano (sia pure all’in­terno o nella forma del linguaggio). E poiché la manifestazione del mondo può essere chia­mata la «mente originaria» – giacché il tratto essenziale della mente è il suo carattere mani­festante ”, la mente originaria è la totalità che non può diventare oggetto della riflessione scientifica, ossia della riflessione che si riferi­sce alle parti di tale totalità. Capitalismo e democrazia si trovano su un piano inclinato lungo il quale stanno scivolan­do insieme alle altre grandi forze della civiltà occidentale – più o meno velocemente, con accelerazioni e rallentamenti, e anche con risa­lite provvisorie e visibili, e comunque urtando­si e confliggendo tra loro. Lungo l’inclinazione di questo piano il comunismo è già arrivato in fondo, ossia è tramontato, e già prima di esso erano tramontate le forme «assolutistiche» dello Stato. Vanno verso il fondo anche le reli­gioni, sebbene questo sia per loro un tempo di risalita – tuttavia incapace di impedire il cre­scente abbandono, da parte dei popoli ricchi, della morale e in generale dei costumi della tra­dizione. Come ho avuto occasione di dire altre volte anche su queste colonne, ciò che determina l’inclinazione di quel piano è la tecnica in quanto unita all’essenza vincente e nascosta della filosofia del nostro tempo. Accade così che il capitalismo, che assume la tecnica come mezzo, divenga esso il mezzo per realizzare lo scopo che è proprio della tecnica: l’aumento in­definito della potenza. Ora, le forme della cri­minalità internazionale (ad esempio la mafia) sono possibili solo all’interno dell’economia capitalistica, ma insieme la indeboliscono. Quindi la tecnica, diventando scopo del capita­lismo (e della democrazia eccetera), tende a di­struggere ciò che, come la mafia, indebolisce la potenza del mezzo. Lo stesso discorso si può fare per le degenerazioni della democrazia. In questo senso, all’interno della storia dell’Occi­dente, la tecnica autenticamente intesa non è qualcosa di temibile, ma di auspicabile. L’attuale crisi economica, per quanto grave ed estesa, si produce dunque all’interno di un ben più ampio e decisivo contesto. Le discipli­ne scientifiche che la prendono in considera­zione non possono coglierne il significato ap­propriato: sono forme della specializzazione scientifica, dove viene metodicamente isolata una certa parte dal terreno in cui essa si trova e assume la configurazione che le compete. Mil­le occhi guardano qualcosa che quindi si pre­senta come mille cose – mille differenze. La volontà isolante è antica come l’uomo, ma all’inizio dell’Occidente è apparsa una gran­diosa forma di sapere che ha tentato di essere la comprensione unitaria del tutto e della tota­lità delle conoscenze. La si è chiamata filoso­fia. Ed è ancora la filosofia a dare, nell’ultima fase del proprio sviluppo storico, la fondazio­ne e la giustificazione di quella forma di isola­mento in cui consiste la specializzazione scien­tifica – la quale non deve certo attendere que­sta fondazione e giustificazione per esistere, e tuttavia, in loro assenza, non può replicare al­cunché alla critica, compiuta dalla tradizione filosofica, di alterare il proprio contenuto pro­prio perché lo isola dal tutto in cui esso si tro­va. Distruggendo irreversibilmente il proprio passato, la filosofia ha fondato l’atteggiamento isolante e quindi anche l’isolamento che costi­tuisce la specializzazione scientifica. Eppure, al di là di tutto questo, è possibile mostrare, sia pure in prospettiva, il contesto unitario di ciò che è disperso nella specializza­zione scientifica – e che peraltro, proprio per tale dispersione, è condizione essenziale della «effettiva» potenza della scienza e della tecni­ca. Ciò vuol dire che l’unità delle differenze’ il pensiero che sta oltre la volontà isolante – può liberarsi dai limiti per i quali si è prodotto il fallimento della volontà unificante propria della tradizione filosofica. cioè possibile guardare al di là dell’opposizione tra tradizio­ne filosofica e distruzione filosofica di tale tra­dizione e, anzi, al di là dell’opposizione tra pas­sato e presente della civiltà occidentale.