Francesco Cevasco, Corriere della Sera 21/07/2009, 21 luglio 2009
«IL FILM CHE MI HA STREGATO E NON RIESCO A RIVEDERE»
Tu chiamala, se vuoi, Malinconia. Sarebbe troppo banale, per un regista, dire che è stato un film a cambiarti la vita. Meglio il sentimento che quel film ti ha tirato fuori dal cuore per la prima volta. Il regista è Marco Risi. Il film che l’ha stordito è di Ermanno Olmi. «Avevo undici anni. E conoscevo già il cinema. A quello parrocchiale vicino a casa ci andavo anche da solo. Western, Guerra. Ci andavo anche con la fionda e le palline di plastilina che stampavo sullo schermo. Divertente e pericoloso, quindi emozionante. Un giorno mia madre e un’amica sua, la poetessa Carla Porta Musa, mi accompagnano a vedere ’Il Posto’. C’era un ragazzo, che come me, non conosceva il mondo. Ma ci si tuffa dentro alla ricerca di un posto fisso. E che vede gli occhi belli di una ragazza, anche lei in cerca di un lavoro. Spera nell’impiego e spera di vederla alla festa di Capodanno organizzata dal Cral aziendale. Lei non ci sarà in mezzo alle trombette e ai cappellini e al pessimo spumante. E la malinconia di quel ragazzo sullo schermo diventa la tua che guardi il film. Lì ho scoperto che il cinema non era solo spettacolo e divertimento. Pochi giorni fa ho comprato il dvd di quel film ma non ho avuto il coraggio di guardarlo perché ho paura di incrinare quella magia».
E quella lezione del maestro Olmi segnerà a vita Marco Risi. Che farà tre film più o meno comici (Jerry Calà superstar) per dedicarsi poi all’impegno civile: «Soldati-365 giorni all’alba», «Mery Per Sempre», «Ragazzi Fuori», «Il Muro di Gomma», «Il Branco», «Fortapàsc ». Dalle caserme del Friuli ai ragazzi carcerati di Palermo, dalla strage di Ustica a una banda di stupratori, fino alla morte per Camorra del giornalista Giancarlo Siani. Marco Risi è talmente snob da essere umile: «Mah, io non lo so se poi nei miei film c’è tutto questo impegno. Qualcuno ha scritto che facevo neo-neorealismo. Lo so bene che ho qualche neo». Continuiamo a far finta che Marco sia un bravo figlio. E facciamolo parlare del padre, il grandissimo Dino. «Era venuto a trovarmi sul set di ’Fortapàsc’ tre giorni prima di morire. Non lo aveva mai fatto. Era il giorno del mio compleanno. Lui era da quelle parti, a Castelvolturno, per un premio di quelli che non capisci perché li fanno. Si chiamava ’Filmare’. C’era un pubblico distratto che aspettava le star della tv. Ho pensato: la perla ai porci, perché ha raccontato quel suo pianto sfrenato la prima volta che ha visto il mare, a 5 anni il mare della Liguria in fondo a una strada, stretto tra due palazzi». Marco ha un taccuino, una di quelle Moleskine nere con l’elastico per tenere ferme le pagine in cui ha annotato le ultime conversazioni con il padre. Diceva Dino, al ristorante: « curioso come si vedono le cose quando sai che è per l’ultima volta: quei cucchiaini lì dentro li guardo con una certa simpatia». Per strada: «Quelle foglie e quei rami si muovono come se mi salutassero e io li saluto». Parlando di lavoro: «Bisognerebbe fare un film dalla morte di Ivan Il’ic, ma si sente che ai tempi di Tolstoj mancava una cultura cinematografica: bisognerebbe aggiungere qualche scena». Fine del primo tempo.
E ora il Marco «Cattivo». Lei ha detto pubblicamente di essere misogino. «Ogni tanto mi diverte fare qualche sparata per uscire dal coro. Comunque sono più onesto di altri maschi che si dichiarano femministi». Scegliamo un paio di donne, tanto siamo qui in mutandoni e ciabatte su una terrazza che guarda il mare di Ischia dove al «Film & Music Global Fest» si ripropone «Fortapàsc ». «Corinne Clery, che come poche sa donare allegria e serenità e Francesca D’Aloja da cui sono felicemente separato. Ma la donna che mi ha segnato più di tutte è stata la Gina, la tuttofare di casa nostra quand’ero bambino.
A tre anni, nel mio linguaggio, mi son permesso di dirle: ’Sederona, non crudere la luce, ambecille’. Mi ha messo subito a posto e mi ha insegnato come si sta al mondo. La sento ancora adesso». Continuiamo con le «cattiverie»: il film «Il Branco» e le accuse di «stare dalla parte degli stupratori ». «Così non è proprio giusto. Certo che è stato un film controverso. Gillo Pontecorvo lo volle portare al Festival di Venezia. Io ho fatto un film dal punto di vista – non stando dalla parte – del carnefice. Un’ottica non capita, non accettata. Quando David Lynch propose di ripescarlo per prenderlo in considerazione per un premio, persino l’eterodossa Uma Thurman disse: se lo fai me ne vado dalla giuria come me ne sono andata dalla proiezione prima della fine. Questo significa rinunciare a guardare le cose anche con occhi non tuoi». Compromessi? «Continui. A volte anche costruttivi. Negli Anni 60-70 i produttori consideravano troppo intellettuali i registi e li ’frenavano’. Oggi ci si autocensura, me compreso, per carità. Oggi non so se sarebbe possibile fare un film come ’Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto’ o ’Ultimo Tango a Parigi’: parlare di potere e di sesso a quel modo. Sì c’è stato ’Il Divo’, ma non dimentichiamo che Matteo Garrone ha dovuto fare la sua strada tra mille difficoltà compreso il finanziamento pubblico negato. Oggi vanno le cose televisive con preti e papi, medici e poliziotti. Tutti buoni ». A proposito, un commento positivo alla neonata Cinecittà milanese è stato: per fortuna, così non sentiremo più parlare il lombardo Giovanni XXIII in romanesco. «Detto sottovoce, questo è giusto. Ma è curioso vivere questa iniziativa come un polo contrapposto a Roma anziché come un’occasione di sviluppo per il cinema e restare indifferenti ai tagli dei fondi destinati allo spettacolo in tutte le sue forme. D’accordo che è più importante la polenta della cultura, ma un Paese muore di fame anche se diventa ignorante e insensibile, se accantona la cultura ». E lei, Risi, ce l’ha un progetto accantonato? «Avrei voluto raccontare la storia di Giusva Fioravanti. Ma è presto, incontra troppe resistenze, costerebbe troppo». Questo è il cinema, bellezza!