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 2009  luglio 21 Martedì calendario

NELLA CRISI GLOBALE L’ECCEZIONE CANADESE


Il moderno harbour­front di Toronto che costeggia per 12 miglia il lago Ontario è visibile da una qualunque delle torri in stile Manhattan-tascabile delle principali banche canadesi: la Toronto Domi­nion Bank (Td Bank), la Bank of No­va Scotia, la Bank of Montreal (Bmo) o la Canadian Imperial Bank of Com­merce (Cibc). Ma il panorama miglio­re è quello dal 40˚ piano della banca più importante del Paese, la Royal Bank of Canada: verso Est una trenti­na di nuovi e snelli grattacieli resi­denziali in acciaio e vetro con invidia­bili terrazze vista «mare» nascondo­no quei pochi edifici smunti che an­cora sopravvivono a testimoniare una fase meno splendida della capita­le finanziaria del Paese. Verso Ovest, davanti alle isolette sulle quali i to­rontiani si rifugiano con il bel tem­po, si possono già seguire i primi la­vori di recupero dell’area che dovrà ospitare i festeggiamenti per le olim­piadi invernali 2010 di Vancouver.

«Sono stati investiti 24 miliardi di dollari canadesi (circa 15 miliardi di euro, ndr ) solo per lo sviluppo immo­biliare in vista dei giochi che per To­ronto saranno molto importanti», spiega Ray Lancashire del ministero del Commercio internazionale e de­gli Investimenti dell’Ontario. Ma tut­ta la città è un cantiere: gru e operai non si fermano durante i frequenti temporali che spazzano la città. Ad ogni angolo manifesti di società im­mobiliari commercializzano il sogno di una vita nuova come quello che sembra attendere gli inquilini delle « successtower » della Pennacle Inter­national, per ora niente più di una ci­catrice di cemento sotto il livello stra­dale. Mentre manifesti con un sorri­dente George Kozaris – venditore che ha piazzato per circa 180 mila eu­ro un appartamento nelle torri da 170 metri quadrati più 25 di terrazzo – tappezzano la passeggiata sul por­to. Toronto non sembra diversa da molte città rivitalizzate negli ultimi anni da uno sviluppo immobiliare che, ora, appare improvvisamente ipertrofico: Barcellona, Madrid, Li­sbona, Reykjavik, anche Milano con i progetti Citylife e Santa Giulia.

Eppure qui le difficoltà del settore immobiliare, e anche di quello indu­striale, stridono con la salute del mo­dello finanziario canadese testimo­niata da bilanci bancari positivi e in­dici di capitalizzazione (il Core Tier 1) in media intorno al 10%. Per avere un termine di paragone basti pensa­re che l’obiettivo degli istituti di cre­dito italiani con i Tremonti-bond è ri­salire sopra quota 7%. Il mantra che qui ognuno ripete – nonostante un Pil atteso in calo del 2,5% nel 2009, un tasso di disoccupazione stimato sopra l’8% rispetto al 6 del 2008 e i dubbi del giornale più influente del Paese, il Globe and Mail – è che la crisi non c’è. Di sicuro non quella psi­cologica.

«Il lavoro non manca e anche le ca­se qui non sono un problema», rac­conta mentre guida tra i nuovi gratta­cieli George Frangos, un tassista di Toronto. «I prezzi – spiega – prima erano saliti di poco e adesso sono sce­si ma di altrettanto. Il merito è delle banche – conclude con orgoglio ”. il Canada ne ha sei (le Big Six se si considera anche la piccola National Bank of Canada, ndr ). Loro gestisco­no tutto » .

Lo stesso governo canadese ha av­viato una campagna di comunicazio­ne internazionale per mostrare che il sistema Paese e le banche hanno sa­puto sviluppare potenti anticorpi no­nostante la vicinanza geografica con l’epicentro del terremoto finanziario, gli Usa. «Il nostro mercato è molto di­verso dal loro», racconta a Ottawa André Asselin, direttore della «So­ciété canadienne d’hypothèques et de logement». « un problema rego­latorio. Non ci sono incentivi fiscali al credito ipotecario. Inoltre la mag­gior parte dei debiti è assicurata con­tro il default. Per legge i mutui supe­riori all’80% del valore delle case de­vono essere assicurati contro il ri­schio di non riuscire a pagare. Due terzi dei mutui sono assicurati e da noi le compagnie sono separate dalle banche. Non c’è un rischio conta­gio ». Ma la caratteristica più signifi­cativa è l’allergia ai subprime , tossi­na originaria della peste finanziaria, nonostante basti allontanarsi di po­che miglia, verso le cascate del Niaga­ra, per entrare in un regno del villino prefabbricato che sembra replicare quel modello Usa di una casa di pro­prietà per tutti.

«I subprime in Canada sono stati generati solo in quantità molto ridot­te, tra il 2 e il 5% dei mutui, e non da istituzioni finanziarie ma da soggetti molto specializzati», afferma Asse­lin. Questo sarebbe sufficiente a spie­gare il fenomeno dell’immunità cana­dese? No. Perché i subprime venduti dai broker internazionali avrebbero potuto con facilità superare i grandi laghi Ontario e Michigan che separa­no Stati Uniti e Canada. Per il ca­po- economista della Bmo, Sherry Co­oper, a fare la differenza è stata la grande prudenza dell’authority. «In Canada c’è un solo regolatore per tut­te le grandi istituzioni finanziarie. E il garante può fare il giro dei mana­ger che gestiscono l’intera finanza ca­nadese anche nel weekend». Versio­ne confermata dalla stesso presiden­te dell’authority, Julie Dickson: «Sia­mo un piccolo sistema. Mi bastano cinque telefonate per sentire tutti». «Inoltre – riprende l’economista – mentre altrove il suo ruolo è quello di proteggere gli investitori qui pro­tegge le banche». Come? Con regole chiare. Nessuna differenza tra inve­stitori canadesi o stranieri. Per salire sopra il 10% del capitale delle grandi banche ci vuole un’autorizzazione ministeriale. Grazie alla moral sua­sion del regolatore il Tier 1 è stato te­nuto sopra il 7% (la media conside­rando anche le piccole banche è il 10%) negli stessi mesi in cui negli Usa navigava allegramente intorno al 6. Ancora: la leva del debito non poteva superare le venti volte, meno della metà di quella in Usa e Europa.

Si potrebbe obiettare che le regole sono fatte per non essere rispettate. Ma in Canada la prudenza sembra es­sere più di un’imposizione. Gli indi­zi? I canadesi sono grandi risparmia­tori e prediligono i mutui a tasso fis­so. «Le banche sono uscite in genera­le dai prodotti strutturati già dal 2005», testimonia Craig Alexander, chief economist di Td bank. E il regi­stratore usato per l’incontro con i giornalisti da Gordon Nixon, presi­dente di Rbc, era un modello a casset­ta, ormai fuori commercio in tutti i Paesi del G8. Qui il motto è che la prudenza non è mai troppa. Ed è te­stimoniata anche dalla sagacia degli istituti nel tenersi fuori da una crisi industriale che, nonostante l’ottimi­smo, è nei numeri e circonda geogra­ficamente Toronto: la spina dorsale dell’industria è nella regione dell’On­tario. Ma tutti i settori, a parte l’isola felice della Rim, società produttrice del BlackBerry che continua a maci­nare profitti e che intorno a Water­loo ha dato vita a una Silicon Valley locale, sono in deficit di ossigeno.

Basterebbe l’esempio di quella Ma­gna in trattative con il governo tede­sco per la Opel. L’importanza del gruppo è testimoniata dal fatto che molti politici di primo piano, come Mike Harris, si sono fatti le ossa qui. Ma le cose non vanno affatto bene. La società di Aurora produce compo­nentistica per Gm, Ford e Chrysler (Detroit è solo sull’altra sponda del lago Michigan e non è un caso l’in­gresso del Canada nel capitale della nuova Gm). E il primo trimestre del 2009 è stato il peggiore della storia di Magna con vendite crollate del 46%. Eppure per il manager della Rbc non è un problema. «Non abbiamo un’esposizione significativa in que­sto settore che sta cambiando dram­maticamente ». Anzi, aggiunge che «le banche hanno un’esposizione ri­dotta nei confronti delle industrie».

Il mistero lo scioglie Alexander del­la Td Bank: «Gli istituti sono soprat­tutto retail », cioè rivolti ai piccoli ri­sparmiatori. E forse lo spiega bene solo un banchiere straniero, Grant Rasmussen, presidente di Ubs weal­th management Canada. «Negli ulti­mi anni non c’è stata una grossa di­scussione sulle ipotesi di fusione tra le banche e questo ci ha difeso». Nel ”98 Bmo propose una fusione con Rbc proprio mentre Cibc stava ten­tando di unirsi con Td bank. Il Com­petition Bureau frenò. E l’allora mini­stro delle Finanze, Paul Martin, bloc­cò tutto. Come ironizzano gli stessi canadesi «il Canada riunisce il me­glio di Usa ed Europa, oppure il loro peggio » .