Francesca Paci, La Stampa 21/07/2009, 21 luglio 2009
LA PRINCIPESSA IN FUGA. «MI VOGLIONO LAPIDARE»
Il 9 aprile 1980 quando la tv britannica decise di mandare in onda «Death of a Princess», il documentario del giornalista della Atv Antony Thomas sulla fine della principessa diciannovenne Mishaal bint Fahd al Saud assassinata con diversi colpi di pistola alla testa dopo aver confessato una relazione adultera, i rapporti tra il Regno Unito e la corona saudita precipitarono ai minimi termini. La petrolmonarchia espulse da Riad l’ambasciatore di Elisabetta II e richiamò da Londra 400 dei suoi. In poche ore andarono in fumo contratti e accordi finanziari da diversi milioni di sterline. Quasi trent’anni dopo è ancora una fanciulla di nobile lignaggio a mettere in crisi le due diplomazie. A rivelarlo è il quotidiano The Independent che racconta la storia della moglie di un alto membro dei Saud riparata nel Regno Unito per dare alla luce un bimbo concepito con l’amante inglese. La fuggitiva ha segretamente ottenuto l’asilo politico perché in patria rischierebbe la lapidazione, variante «creativa» della sorte di Mishaal bint Fahd al Saud condannata a morte, pare, per volontà del nonno Muhammad bin Abdul Aziz, il fratello maggiore del re.
Il caso non sarà privo di conseguenze per Downing Street che già lo scorso anno s’era trovato in cattive acque quando la Camera dei Lord aveva giudicato «illecita» la decisione dell’ufficio antifrode di sospendere l’inchiesta sull’accordo tra il regno saudita e la società di difesa Bae Systems per una partita di armi da 43 miliardi di sterline. Allora la cosa era stata archiviata senza grande clamore anche perché dietro l’iniziativa c’era l’ex premier Tony Blair che aveva ceduto ai sauditi preoccupati di proteggere i loro conti svizzeri dallo zelo degli inquirenti al punto da minacciare il congelamento della partnership sull’intelligence e sulla fornitura di munizioni. Stavolta chissà.
«Le relazioni tra Londra e Riad sono state condotte soprattutto all’insegna del pragmatismo politico», osserva Gerd Nonneman, analista dell’istituto Chatham House. Ci sono stati periodi in cui il commercio di armi rappresentava la metà del business tra Regno Unito e Arabia Saudita e almeno 30 mila britannici hanno lavorato grazie ai contratti tra la Al-Yamamah e l’anglosassone Bae.
Secondo l’Independent la storia della principessa, alla quale il tribunale ha garantito l’anonimato, non è la prima. Altre sue connazionali avrebbero già ricevuto lo status di rifugiate per motivi analoghi rimanendo, per precauzione, lontano dai riflettori. Lei, che ha raccontato d’aver incontrato il suo amante non musulmano durante un viaggio a Londra almeno un anno fa, è tornata dopo alcuni mesi di gravidanza per paura che l’anziano marito la scoprisse e ha partorito nella City.
L’ambasciata saudita a Londra, così come il ministero dell’Interno britannico, non commenta. Il sito dell’agenzia di stampa ufficiale di Riad ignora la notizia e si concentra su due nuove moschee inaugurate da re Abdullah bin Abdullaziz. Ma l’impressione è che la diplomazia araba sia sulla difensiva.
Nonostante le 102 esecuzioni ordinate dalle corti saudite nel 2008 rappresentino «un passo avanti» rispetto alle 156 dell’anno precedente, la capitale araba contende a Uzbekistan, Turkmenistan, Iran e poche altre dittature il record negativo dei diritti umani. Dal 1990 ad oggi quaranta donne sono state uccise. Secondo Amnesty International le accuse di adulterio sono le più difficili da contrastare perché le imputate, se pure non fatte fuori a pietrate in piazza, spariscono. S’ignora dove sia rinchiusa una vedova diventata madre diverso tempo dopo la scomparsa del marito, il destino di una ventitreenne condannata a 700 frustate e un anno di prigione per essere stata violentata, certa invece è la sorte di due sorelle di 19 e 21 ammazzate dal fratello per essersi mescolate con membri d’una famiglia rivale. C’erano una volta principi e principesse. Stavolta almeno abbiamo il lieto fine.