Irene Bignardi, la Repubblica, 8 lug 2009, 21 luglio 2009
Un Pulitzer all’insegna della tradizione e della solidità Olive Kitteridge è una signora che da noi definiremmo di "una certa età" -- età che, come sappiamo, è di solito, invece, molto incerta
Un Pulitzer all’insegna della tradizione e della solidità Olive Kitteridge è una signora che da noi definiremmo di "una certa età" -- età che, come sappiamo, è di solito, invece, molto incerta. Una signora massiccia ma forse non brutta, dura, implacabile nel giudizio e nella sicurezza con cui lo esprime e con cui esterna il desiderio di non essere amata -- pur interrogandosi sul perché non lo è. Una insegnante e poi ex insegnante di matematica nel liceo locale, egualmente temuta e rispettata. Una persona perbene, chiusa nel piccolo cerchio della sua comunità e della sua città, Crosby, nel Maine, sul mare. Ed è la protagonista di Olive Kitteridge (Fazi, pagg. 383, euro 18,50), un "romanzo per racconti", se così si può dire, costruito per episodi sconnessi ma collegati, in cui Olive a volte è il personaggio centrale, altre volte entra in scena sullo sfondo, o solo di passaggio, come in una comparsata di Hitchcock, ma sempre come la bussola psicologica e morale del suo piccolo mondo. Un romanzo in tredici episodi costruiti e intrecciati a comporre il quadro di un mondo marginale, antico e forse un po’ antiquato, quello della provincia americana dell’Est, fuori dalle grandi correnti degli eventi, delle decisioni e delle mode, dove tuttavia le mode e la storia irrompono a modificare i comportamenti e i destini. Un romanzo classico e tradizionale, tra Virginia Woolf e il Thornton Wilder della Piccola città, ma rinnovato dalla sua struttura policentrica. E un romanzo che nonostante -- o forse per -- il suo profumo un po’ vecchiotto ha conquistato i giurati del Pulitzer, i quali, allineati con i colleghi del Man Booker International Prize, che hanno recentemente laureato la grande Alice Munro, hanno conferito ad Elizabeth Strout il premio già andato nel corso dei suoi novant’anni di storia a un Gotha letterario che svaria da John Steinbeck a Booth Tarkington, da Margaret Mitchell a Norman Mailer, da Saul Bellow a Harper Lee, da Willa Cather a Corman McCarthy, da Philip Roth all’allora (nel 2000) sconosciuta Jhumpa Lahiri di L’interprete dei malanni, felice esempio di una voce al femminile che torna con sempre più successo, soprattutto nella forma racconto. L’essere "fuori" moda, e in qualche misura fuori dal tempo, è gran parte del fascino di Olive Kitteridge e del suo mondo, una piccola città del Maine molto simile alla Portland natale di Elizabeth Strout (che ora vive però a New York). La sua Crosby è un posto di middle class ruvida e silenziosa, dai ritmi regolari, abitudini austere, rimozioni emotive, passioni nascoste e rimandate, segreti e bugie. Una storia prende le mosse al ricevimento che segue il funerale di un uomo la cui vedova ha appena saputo della sua infedeltà. La patetica e molto tenera pianista del night club locale continua ad inseguire una memoria d’amore che la blocca in una impotenza emotiva. Il figlio di Olive, podologo, silenziosamente ribelle, si sposa, divorzia, si risposa, secondo un piano di fuga dalla madre onnipresente e onnipotente. Qualcuno muore, nella maniera imprevedibile e poco eroica della vita vera. Una bella ragazza si lascia morire di fame sotto gli occhi della bulimica Olive che cerca invano di aiutarla. Suo marito, il farmacista attento e paterno della città, coltiva un suo piccolo sogno d´amore. E incredibilmente l’ha coltivato in passato anche Olive, che lo ha espresso nella maniera estrema e assolutista sua propria… In questo puzzle quasi atemporale di sentimenti e di piccoli eventi che si strappa e si ricompone in un quadro tutto virato in minore, in questa commedia umana polifonica che illumina da angoli diversi le vite e le cose della piccola città e che tradisce una perenne nostalgia di un´epoca d’oro mai esistita, Elizabeth Strout immette tuttavia a sorpresa dei momenti di durissima critica. George W. Bush? "Lascia che te lo dica", esplode Olive, la tranquilla professoressa, parlando con un amico a proposito di cowboys. "Quell´idiota ex cocainomane non è mai stato un cowboy. Può indossare tutti i cappelli che vuole. E´ solo un bambino pestifero e viziato, nato nella bambagia. Mi fa vomitare". E come se non bastasse, due righe più sotto ecco che l’innominato ma riconoscibilissimo Bush è definito "un mascalzone". un tocco -- l’insofferenza politica di Olive -- che definisce con ancor maggior precisione il ritratto di un personaggio antipatico ma retto, brusco ma sincero, a cui, per la durezza e l´asprezza, ci si affeziona lentamente, fino ad essere quasi felici per lei in vista di una remota e possibile felicità finale. Ma che resta lontana, fuori dal tempo e fuori da uno spazio riconoscibile, protagonista di un esercizio di finezza emotiva senza climax che potrebbe finire in ogni momento, e che non permette mai l’identificazione e l´abbandono alla indispensabile empatia. Una notazione da maestrina, ma forse utile. La "h" è una consonante. Perché la pur brava Silvia Castoldi, che firma la traduzione, dice "ad Henry", "ad Harvard"? E se, come penso, nell’originale si parla di drug store, perché tradurre con drogheria, che dal Maine ci trasporta nel Veneto di un tempo? Irene Bignardi, la Repubblica, 8 lug 2009