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 2009  luglio 20 Lunedì calendario

IL PIAVE NON MORMORA PIU’

Il Piave non mormora più. Gorgoglia magari, scroscia, rimbomba lungo le condotte di metallo. O semplicemente tace, ridotto a un rigagnolo largo un paio di metri, spesso come un foglio di stagnola.
Fra Treviso e Conegliano Veneto l’autostrada corre verso le Dolomiti, il nuovo patrimonio dell’Umanità dell’Unesco. Davanti le pareti verde scuro delle Prealpi, poi all’orizzonte le vette oltre i tremila. In mezzo a questa pianura dove il cielo a Nord ha i colori della montagna e a Sud l’azzurro disteso della Laguna, si incontra un ponte: «Fiume Piave, sacro alla Patria». Un messaggio dai toni solenni. Sì, è cominciato tutto da qui, i solchi tra le montagne, la piana. L’Italia che fermò le truppe austriache. Ma chi si affaccia dal viadotto rimane interdetto: dov’è il Piave? Nel periodo di magra di inizio agosto il fiume è ridotto a un torrente. Non lo vedi, si perde nel letto di pietre bianche. Negli anni di siccità scompare. Ma non è colpa delle precipitazioni, il Piave di acqua ne avrebbe in abbondanza, oltre 3,5 miliardi di metri cubi l’anno. Il punto sono quelle 121 centrali idroelettriche che gli prosciugano gli affluenti, quei 98 metri cubi al secondo che nei mesi secchi gli vengono prelevati per irrigare i campi. Per non dire dei 37 punti di «attingimento» per l’innevamento artificiale.

Insomma, sarà pure «Sacro», ma poi la Patria nel tratto alpino porta via al Piave fino al 90 per cento delle sue acque. Nei 227 chilometri dalle sorgenti alla foce costruisce 200 chilometri di tubature e 17 invasi di media grandezza.
Il colpo finale deve ancora arrivare: negli uffici della Provincia di Belluno giacciono altre 28 domande per micro-centrali idroelettriche (una alle porte di Cortina D’Ampezzo). Una specie di epidemia con undici richieste negli ultimi tre mesi. Basta un rivo di un paio di metri cubi al secondo di portata e subito qualcuno propone di metterci una turbina. Per rendersene conto bisogna andare a Perarolo (a Nord di Belluno), al bar dei Zater. Bisogna farsi mostrare da Luigino le fotografie dei grandi zatter, zatteroni appunto, che all’inizio del ”900 scendevano il fiume: «Venivano costruiti sul momento, con i tronchi dei boschi delle Dolomiti destinati ai palazzi di Venezia. Poi raccoglievano merce da Perarolo fino alla Laguna, quasi duecento chilometri», racconta Luigino. Se non ci fossero le fotografie, sarebbe difficile credergli: sul fiume oggi ci naviga a stento una canoa. Ma il paradosso del Piave - almeno nel tratto dolomitico - è un altro: il fiume, scendendo, invece di ingrossarsi si prosciuga.
Provate a salire a Santo Stefano di Cadore, a due passi dalle sorgenti. «In meno di dieci chilometri diventa largo decine di metri», spiega Sergio Reolon, ex presidente della provincia di Belluno (Pd) che della battaglia per il Piave ha fatto una ragione di vita, fino a dichiarare una secessione idrica dalla Regione Veneto: gente di sinistra e di destra unita contro la Pianura che si beve il fiume e si tiene i canoni demaniali. La Piave, la chiama Reolon come si usa qui, «perché il fiume è la nostra madre, le dobbiamo tutto». Ma basta scendere qualche tornante e cominciano le sorprese: il Piave si infila nei tubi. Si riduce a una lingua d’acqua, non ne senti più nemmeno il rumore leggero, fresco. Il resto è nelle condutture, ricomparirà tra dieci chilometri. Poi sparirà di nuovo. Il Piave scorre sottoterra, è un fiume in cattività, prigioniero di tubi e turbine. «I nove decimi dell’acqua sono preda delle centrali», spiega Reolon. L’espressione chiave diventa «minimo deflusso vitale», è la quantità d’acqua che le centrali e i concessionari devono lasciare per garantire la sopravvivenza del fiume. Un’espressione tecnica, ma bisogna verificare con i propri occhi: «Guardi, questo le sembra un fiume?», chiede Ferruccio De Poi, presidente del Bacino di pesca di Belluno e indica il Mis, nove metri cubi su dieci per la diga. De Poi racconta: «Quando i gestori chiudono i rubinetti il fiume scompare e noi dobbiamo salvare i pesci che boccheggiano».
Peccato, perché il Piave ha una varietà ittica che mezza Europa ci invidia: trote, temoli, carpe, lucci, li vedi nuotare nell’acqua bassa un palmo, li potresti prendere con le mani. «Ma non sono soltanto i pesci, se vanno via loro scompaiono anche gli uccelli, gli aironi neri, bianchi e cinerini. E senza acqua non vivono i grandi animali, come i cervi», racconta Giuseppe Giacobbi, uno che alla Piave ci dedica ogni ora libera. Che va su e giù per il lago di Cadore con una barca che pulisce l’acqua. Gratis, ovviamente.
Il Piave è sacro soltanto sui cartelli segnaletici: certo, l’energia è importante, i due terzi di quella prodotta in Veneto vengono dall’acqua del Piave. «Però bisognerebbe fare come in Val Pusteria, dove le centrali prelevano l’acqua dal fiume e gliela restituiscono dopo poche centinaia di metri», punta il dito Giacobbi. Ma non c’è soltanto questo: le centrali sono cominciate a fiorire sul Piave tra le due guerre. Stava nascendo Porto Marghera e senza l’acqua del fiume il polo chimico del Veneto sarebbe durato poco (la società che costruiva le centrali, la Sade, aveva gli stessi padroni della grande industria e realizzò anche la diga del Vajont). Adesso, però, è diverso: «Oggi ci sono piccole società che costruiscono centrali per ottenere i certificati verdi, per produrre energia che sarebbe antieconomica, ma che viene pagata molto più di quella prodotta con combustibili fossili», sostiene Giacobbi. Poi ci sono i comuni che hanno le casse più prosciugate del Piave e si aggrappano alle concessioni idroelettriche per rimettere in sesto i bilanci.
«I grandi impianti noi li abbiamo ereditati dal passato, sono degli anni Venti», allarga le braccia Mario Trogni, responsabile dell’unità business dell’Enel di Vittorio Veneto. Ma non è possibile ridurre il loro impatto, restituire subito le acque al fiume? «Non è ipotizzabile rivedere i grandi impianti storici. I nuovi, per fortuna, sono molto più piccoli e hanno un impatto più ridotto sul Piave. Purtroppo il fiume deve soddisfare tanti bisogni. C’è l’energia pulita (qui ci sono 850 Megawatt di potenza installata su un totale italiano di 23.000 Megawatt), ma ci sono anche le necessità dell’irrigazione, dell’ambiente e del turismo», spiega Trogni. Che conclude: «Non siamo solo noi a decidere l’utilizzo dell’acqua che passa per le nostre dighe». Così il fiume arriva stremato alla pianura. Ma qui, dove dovrebbe allargarsi sull’antico grande letto, deve subire un altro attacco: l’irrigazione. «Non mettiamo in discussione il diritto delle campagne, ma è anche necessario rispettare il fiume, che dà vita alle nostre montagne", sospira Reolon. Punta il dito: "I consorzi prelevano acqua a piene mani: si arriva anche al 50 per cento di quella che arriva in pianura. Ci sono sprechi. Si utilizzano sistemi di irrigazione, come il metodo a spaglio, che era già della Repubblica di Venezia».
Finora la pianura ha stravinto, forse perché i suoi 5 milioni di voti pesano più dei 200mila della montagna. Poi c’è la burocrazia: la Regione non ha ancora indicato i livelli di deflusso minimo vitale. Nel calcolo dell’acqua prelevabile si conta anche il Vajont, 1,5 miliardi di metri cubi, anche se il bacino è vuoto. Insomma, c’è più acqua sulla carta che tra le sponde. Il Piave, simbolo dell’Italia unita, diventa l’emblema dei nostri fiumi a rischio di estinzione.