FRANCESCO MOSCATELLI, La Stampa, 17/7/2009, 17 luglio 2009
CRESCERE CON IL LOGO IN TESTA
Chi se li immagina come novelli Romolo e Remo, costretti a trangugiare inconsapevolmente il latte di matrigna-tv, narcotizzati sul divano, senza difese, davanti a un bombardamento di spot, è rimasto indietro di un paio di generazioni. Una ricerca dell’università Bocconi, firmata dalle docenti di marketing Stefania Borghini e Chiara Mauri, con la collaborazione di Emanuele Fiordalisi e Maria Elena Cavazzana, dimostra che i ragazzini della scuola primaria sono tutto fuorché bersagli passivi di slogan e loghi. «Dopo il 2000 l’interesse delle aziende per i comportamenti di consumo dei bambini è cresciuto in modo esponenziale - spiega la professoressa Stefania Borghini -. I ragazzini sono più autonomi nelle scelte, specialmente per i vestiti, i prodotti per la scuola e sempre di più per le nuove tecnologie».
«Non chiamateci piccoli»
I bambini di oggi, quelli che hanno tra i 7 e gli 11 anni, innanzitutto non si sentono più bambini da un pezzo. Negli Stati Uniti hanno anche uno slogan: «Don’t call me kid, I’m a tween». Per definire l’età compresa fra infanzia e adolescenza, infatti, oggi si usa un termine preso dalla Terra di mezzo di Tolkien. «Tween», appunto, i giovani «hobbit». Ma non è solo una questione di parole.
In America, come raccontava un’inchiesta dell’Economist, ormai anche i produttori di auto e i villaggi vacanze fanno campagne mirate sui canali Tv dedicati ai bambini. I figli influenzano per almeno il 47% gli acquisti delle famiglie: un affare che vale 40 miliardi di dollari in bambole, soldatini e videogame, e altri 680 miliardi per le spese indotte più o meno direttamente. «Fino a qualche anno fa il problema era capire se i più piccoli riuscissero a distinguere fra pubblicità e intrattenimento - continua la professoressa Borghini -. Oggi sappiamo che i bambini distinguono benissimo. Anzi: hanno un atteggiamento critico e comprendono molto bene i meccanismi pubblicitari».
Il marketing nel Dna
Lo studio dell’università milanese dimostra che hanno ben radicato il concetto di marca («Distingue i prodotti buoni da quelli cattivi», « una firma che si mette sui prodotti per renderli riconoscibili»), quello di target e persino la necessità di veicolare i messaggi in modo differenziato a seconda del tipo di media utilizzato. Le loro marche di abbigliamento preferite, inoltre sono quelle «che consentono di comunicare agli altri il proprio Io e di ottenere accettazione sociale tramite il conformismo». Sanno anche che i pubblicitari hanno scelto proprio quello slogan perché «attraverso queste parole questa marca di abbigliamento può farti sentire meglio spiritualmente, senza le preoccupazioni della vita di tutti i giorni».
Ma la cosa più impressionante, come dimostra un esperimento condotto in alcune scuole elementari milanesi, è che i ragazzini riescono a maneggiare con naturalezza il linguaggio pubblicitario. «Conoscono le regole del marketing, sanno creare jingle originali e comprendono la natura del ”pay off”, il ritornello di ogni spot - prosegue Stefania Borghini -. I test dimostrano che a nove anni non scriverebbero mai: ”Comprate queste belle scarpe” perché sanno che è molto più efficace un ”Con queste scarpe volerete nella totale libertà”». Insomma: i «tween» hanno il marketing nel loro dna. «Ma c’è di più - conclude la professoressa - percepiscono le connotazioni sociali del concetto di marca e cercano di sovvertirne il significato perché sono consapevoli che l’altra faccia dello status symbol è la discriminazione. Attraverso il mercato, cercano di raggiungere una maggiore democratizzazione della società». Il mondo perfetto è quello dove tutti possono avere oggetti firmati.
Eugenio Bona, manager dell’«Armando Testa», non è stupito: «I bambini di oggi sono molto più evoluti, sono tecnologici e stanno crescendo in un mondo dominato dalla comunicazione». Ma c’è anche chi consiglia di non abbassare la guardia: «Negli ultimi anni c’è stata una significativa evoluzione delle capacità cognitive dei bambini. Molti di loro sono in grado di smontare i messaggi pubblicitari - analizza Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia dello Sviluppo -. Non dimentichiamoci, però, che l’arte della manipolazione pubblicitaria agisce anche nell’inconscio. Un conto è sapere che un giocatore è stato scelto da una marca di acqua minerale con fini strumentali, un altro è non essere condizionati dal proprio idolo».
Stampa Articolo