Massimo Mucchetti, Corriere Economia 20/07/2009, 20 luglio 2009
MA QUESTA BORSA SERVE ANCORA?
Lamberto Cardia si è guadagnato i titoli dei giornali paventando il rischio di asfissia finanziaria – proprio questa è stata l’espressione usata lunedì 13 luglio all’assemblea della Consob – per la gran parte delle imprese medio-piccole, «trama fondamentale del tessuto imprenditoriale italiano». A ben vedere, non era una gran notizia.
Diversamente dalla Banca d’Italia guidata da Mario Draghi e dalle associazioni di categoria, la Consob non raccoglie informazioni sulle società non quotate. Il suo presidente, dunque, ha solo ripetuto da un pulpito diverso, con fama di indipendenza, le preoccupazioni già espresse dal Governo, da Confindustria e, con accenti diversi, dalla stessa banca centrale.
E si è conquistato così, nella narrazione giornalistica, un posto d’onore vicino al ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, e lontano dai banchieri ai quali, indirettamente e genericamente, sembra imputare le difficoltà dei piccoli.
Senza venir meno alla sua indipendenza, la Consob avrebbe forse potuto dare una collaborazione più pertinente al governo se il presidente avesse usato il diritto di tribuna per ragionare sulle tendenze delle società quotate nell’economia del debito. A pagina 27 della relazione annuale, per esempio, la Consob pubblica un grafico (che riproduciamo) sulla de-equitisation del mercato italiano. Il neologismo anglicizzante, introdotto nella relazione dell’anno precedente, sta per de-patrimonializzazione delle imprese.
In questa crisi, fa fino parlare del de-leveraging per riassumere con suono meno brutale il rientro, per lo più obbligato, di banche, imprese e famiglie in limiti di esposizione più sostenibili. Ma l’eccesso di debito è il frutto avvelenato non di un destino cinico e baro o di una calamità naturale, ma esattamente della de-equitisation. La quale è stata perseguita a beneficio di alcuni portatori di interessi (gli azionisti a breve termine) e a danno di altri (gli azionisti di lungo corso, i dipendenti, i clienti, i creditori in genere).
Nel periodo preso in esame, gli ultimi 14 anni, la Borsa è servita a togliere denari alle imprese, a de-patrimonializzarle; non a portarvi denari, a patrimonializzarle.
Sul Corriere ne parliamo da parecchio tempo. Ricorderemo qui che nel decennio 1998-2008 il saldo tra capitali in entrata (attraverso emissioni azionarie) e capitali in uscita (dividendi, offerte pubbliche d’acquisto e di vendita, acquisto di azioni proprie) è stato negativo per 362 miliardi di euro. La Consob conferma il fenomeno. E aggiunge che il debito delle imprese non finanziarie quotate italiane è analogo a quello delle tedesche e superiore al debito delle francesi in rapporto al patrimonio, ma nettamente superiore in rapporto al fatturato: il 55% contro il 42% delle tedesche e il 38% delle francesi. A che serve dunque la Borsa?
Un banchiere d’affari newyorkese, Peter Solomon, ha confidato al Financial Times: «Non capisco perché qualcuno possa volersi quotare se non ha bisogno di nuovi capitali». E se lo dice un ex Lehman come Solomon, e non un «arretrato» mobiliere della Brianza schiavo del capitalismo familiare, che senso ha invocare l’aumento del numero delle società quotate e incentivi alle transazioni Borsa, a prescindere come avrebbe detto Totò? Certo a distribuire ricchezza, ma non a costruirla. Sarebbe interessante sapere perché le italiane quotate presentano quella petite difference. Forse perché hanno fatto debiti per comprare se stesse e non per fare veri investimenti?
La Consob, che non è Borsa Italiana Spa, potrebbe scavare nei nessi tra comportamenti eincentivi offerti a finanziati e finanziatori. E dire la sua su come patrimonializzare di più e meglio le imprese. Limitarsi a seguire l’onda anti Opa è un po’ poco.