Michele Ainis, La Stampa, 17/7/2009, 17 luglio 2009
SE LA FORMA DIVENTA SOSTANZA
La promulgazione delle leggi è l’atto più rituale del nostro ordinamento. Nel caso della legge sulla sicurezza, Napolitano lo ha consumato nel modo più irrituale, accompagnandolo con una lettera carica di dubbi e di riserve. Da qui un diluvio di reazioni, dal plauso del presidente della Camera Fini al biasimo dell’ex presidente del Senato Pera. Ma da qui anche una doppia questione: di metodo e di merito, giuridica e politica. E almeno questa volta il metodo giuridico precede il merito politico, la forma condiziona la sostanza.
Cominciamo allora da una domanda in punta di diritto: esiste la promulgazione con riserva? No, non esiste. Se il Presidente ha qualche riserva sulla legge che dovrebbe promulgare, non ha che da rinviarla al Parlamento, imponendo un nuovo voto, e magari talune correzioni. In altri termini, la riserva presidenziale si traduce nel rinvio, e dunque nel rifiuto di promulgazione.
Infatti il rifiuto - a differenza del consenso - è sempre accompagnato da un messaggio motivato alle due Camere, come vuole l’articolo 74 della Costituzione. Significa perciò che nella circostanza Napolitano ha usato in modo distorto i suoi poteri? La risposta è un altro no, per almeno due specifiche ragioni.
In primo luogo, le regole costituzionali hanno uno stampo diverso da quelle del codice stradale. Nella fattispecie l’automobilista è la politica, sicché la regola deve riflettere l’elasticità della politica, per calzarle come un guanto. Non per nulla negli ultimi anni si contano vari precedenti di promulgazioni accompagnate da una lettera presidenziale al governo e al Parlamento. successo durante il settennato Ciampi, è successo in altre tre occasioni durante questo settennato. Dunque la regola si è via via innervata d’una prassi che la rende meno rigida, meno perentoria. Come d’altronde è già accaduto in sorte all’altro garante delle nostre istituzioni, la Consulta. Dovrebbe pronunziare unicamente sentenze d’accoglimento o di rigetto delle questioni che le vengono sottoposte; ha forgiato viceversa un intero arsenale di strumenti processuali, dalle sentenze manipolative a quelle monitorie, che fanno salva la legittimità costituzionale delle leggi, ma aggiungono un monito al legislatore affinché rimedi ai propri errori. Come ha fatto, per l’appunto, il presidente.
In secondo luogo, rendere noti i propri dubbi, illustrare pubblicamente le ragioni del proprio operato, è sempre un elemento di trasparenza della vita democratica. Napolitano ci ha abituato già a questo costume intellettuale, per esempio quando ha spiegato ai giornalisti le sue scelte dopo la crisi del governo Prodi, all’atto di conferire un incarico a Marini. Un’altra prassi irrituale, ma non certo eversiva. Semmai è irrituale la confezione di leggi che si risolvono in altrettanti fritti misti, com’è il caso della legge sulla sicurezza. Tre soli articoli, ma un totale di 128 commi, che a loro volta modificano più di 200 disposizioni normative. Perle giuridiche, come una norma modificata da due distinte norme della legge di modifica. Sanzioni inapplicabili, che in nome della sicurezza generano maggiore insicurezza.
Ecco, è qui che la forma diventa un problema di sostanza. Napolitano lo ha pubblicamente denunciato, pur senza accendere il rosso del semaforo. E la sua denuncia è insieme giuridica e politica. Perché la cattiva forma delle leggi è sempre figlia della cattiva politica.