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 2009  luglio 17 Venerdì calendario

Lo scandalo Rio Tinto Spie e arresti a Pechino - PECHINO – La versione australiana: «I nostri dipendenti sono stati arrestati per rappresaglia» dopo un affare andato male

Lo scandalo Rio Tinto Spie e arresti a Pechino - PECHINO – La versione australiana: «I nostri dipendenti sono stati arrestati per rappresaglia» dopo un affare andato male. La versione cinese: «Corruzione ai massimi livelli» e un «chiaro tentativo di influenzare il prezzo» dell’acciaio acquisendo «segreti di Stato e ricattando funzionari e manager» di sedici grandi imprese. Scambio di accuse fra Pechino e Canberra. Uno dei più grossi scandali industriali degli ultimi anni è diventato un caso con dirette implicazioni diplomatiche. Il fermo, il 5 luglio scorso, senza alcun preavviso, di Stern Hu, rappresentante dell’australiana Rio Tinto nella Repubblica popolare, e di altri tre dipendenti cinesi di uno dei più grandi gruppi minerari al mondo, ha scompaginato il mercato dell’acciaio cinese – base fondamentale dell’industria nazionale – coinvolgendo la politica ad alto livello. A Pechino sembra chiaro che l’ordine di intervenire sia stato quanto meno appro­vato dai massimi dirigenti del Paese: l’arresto di Stern Hu è stato infatti effettuato dall’unità speciale di investi­gazione dell’Ufficio della Si­curezza nazionale di Shan­ghai, direttamente collegato con chi detiene il potere a Pe­chino, l’Ufficio politico del Comitato Centrale presiedu­to da Hu Jintao. Non è dun­que un caso che il primo mi­nistro australiano Kevin Rudd si sia sentito in obbli­go di intervenire «avvisan­do » la Cina che «tutto il mon­do avrebbe seguito lo svol­gersi » delle indagini e della gestione di un processo dal­le «sicure conseguenze in campo internazionale». A Melbourne, sede del gigante minerario Rio Tinto, il trasfe­rimento in un luogo segreto dei quattro dirigenti ha su­scitato timori e sospetti per­ché è avvenuto dopo la rottu­ra delle trattative per la crea­zione di una joint-venture tra la compagnia e la cinese Chinalco. Durissima la reazione cine­se. Il portavoce del ministe­ro degli Esteri Qin Gang ha detto che il «chiasso» che si sta facendo in Australia sul­l’arresto dei quattro costitui­sce una «interferenza nell’in­dipendenza giudiziaria cine­se ». Secondo Qin Gan «le au­torità competenti cinesi han­no agito in base alla legge, e la Cina è un Paese governato sulla base della legge». I gior­nali della Repubblica popola­re, negli ultimi dieci giorni, hanno elargito inconsuete «rivelazioni» di anonimi diri­genti di acciaierie, pubbli­cando quotidianamente estratti di «prove» trovate sui computer della Rio Tin­to. Un acciaio-gate dosato giorno per giorno: una novi­tà per questo Paese. «La com­pagnia australiana – ha scritto in prima pagina il China Daily – ha corrot­to le prime sedici acciaierie cinesi e tutti i membri del­l’Associazione dei produtto­ri metallurgici (Cisa, unione dei 119 gruppi che controlla­no il 90% della produzione nazionale, ndr ) » . Il quotidiano governativo, citando una «gola profon­da » non identificata, ha poi scritto che i quattro della Rio Tinto sono finiti dietro le sbarre per «aver rubato se­greti di Stato, mettendo in pericolo la sicurezza e gli in­teressi economici della na­zione, con l’intenzione di manovrare a proprio favore i prezzi nelle negoziazioni minerarie». Ieri, vista la situazione e a scanso di equivoci, mentre il ministro degli Esteri di Can­berra, Stephen Smith, incon­trava (a Sharm-el-Sheik, in Egitto, durante la riunione dei Paesi non allineati) il vi­ceministro degli Esteri cine­se Hu Yufei, tutti gli analisti di Rio Tinto che non l’aveva­no ancora fatto hanno lascia­to la Repubblica popolare. Difficile capire cosa acca­drà a breve: il blitz nel setto­re minerario (indagini e arre­sti sono tuttora in corso) ha senz’altro una motivazione economica, dal momento che le negoziazioni sui prez­zo legati alla produzione del­l’acciaio hanno una ricaduta diretta sulle merci destinate ai consumatori, dalle auto agli elettrodomestici. Ma un’altra sembra essere di po­litica interna e viaggiare di palazzo (del potere) in palaz­zo secondo le consuetudini cinesi ben rappresentate dal gioco delle ombre. Insomma, il fatto che il premier Wen Jiabao, già «la­titante » durante la rivolta nello Xinjiang, non sia (anco­ra) comparso in pubblico né abbia espresso un solo pare­re su tutta questa complica­ta questione potrebbe essere un segnale che gli equilibri, a Zhongnanhai, la cittadella dei potenti, stanno cambian­do rapidamente.