Federico Fubini, Corriere della Sera 17/07/2009, 17 luglio 2009
QUEL MILIARDO DI PECHINO CHE PUNTELLA LA GIUNTA
Bogyeke Ywa è un quartiere un po’ appartato di Mandalay, la città al cuore del bacino minerario della Birmania. Una scuola dà un’aria di normalità, ma il resto è tutto abbastanza esotico per una sgangherata località fra i monti nell’Asia del sud-est. Il nome Bogyeke Ywa («villaggio dei militari») farebbe pensare a una caserma o a un accampamento, invece gli edifici ricordano piuttosto un tentativo di imitazione di Long Island o di qualche club per banchieri di Wall Street in pensione.
Enormi ville neoclassiche poggiano su colonne dai capitelli corinzi. Gli architravi, le alte finestre, la pittura bianchissima delle facciate: tutto è di un gusto imperiale e occidentale. Le paraboliche nei giardini, larghe come fossero state prelevate da incrociatori oceanici, permettono magari di ingannare alla tivù il senso d’isolamento. Ma i nomi di molti dei padroni di casa di qui restano comunque nelle liste delle sanzioni che vietano i viaggi in Europa e Nord America ai gerarchi del regime. Ovunque i muri sono deturpati dal filo spinato, le strade polverose e sterrate e molte ville restano coperte da sbilenche impalcature di giunchi.
in questo lusso sciatto e megalomane che non molto tempo fa un imprenditore cinese di nome Saw Nyein si è innamorato di una villa. Era (ed è) di proprietà del generale Thura Shwe Manu, il terzo uomo nella gerarchia della giunta birmana. Come altri nell’élite cleptocratica del Paese, anche lui ha una residenza a Bogyeke Ywa, strategicamente situata nella città verso cui confluiscono l’oro e le gemme di tutto il Paese. Saw Nyein per quella villa ha presentato a Thura Shwe Manu un’offerta esorbitante, di quelle impossibili da rifiutare. Da allora Saw Nyein è il generoso inquilino del generale, si è procurato senza affanni la cittadinanza birmana e adesso ha facilmente accesso ai vertici della giunta per qualunque sua faccenda. Non è il solo. Alcuni esponenti dell’opposizione stimano che a Mandalay almeno 120 mila cinesi abbiano comprato «un nome birmano», cioè la cittadinanza. Rappresentano il 10% della popolazione ma, si valuta, l’80% dell’economia cittadina; alcuni di loro della corruzione per conto terzi e dell’intermediazione d’affari hanno fatto un mestiere. Dalla villa di Thura Shwe Manu basta guidare cinque minuti fino alla fortezza cinquecentesca dov’è accampato (davvero) l’esercito, per trovare un enorme cartello: «Il desiderio del popolo: contrastare chi si appoggia su elementi esterni ed è loro complice (…), opporsi alle nazioni straniere che interferiscono negli affari interni dello Stato». il solo messaggio di una dittatura altrimenti senza ideologia né volti o culto della personalità. Gli abitanti di Mandalay lo conoscono a memoria, come una di quelle preghiere in cui non si fa più caso al senso esatto delle parole. Ma l’unico atto di «opposizione» in città ebbe luogo quando a un ristorante chiamato «La grande muraglia» fu fatta cambiare l’insegna, dai caratteri cinesi a quelli birmani (il concetto restò invariato).
I cinesi vengono sommessamente detestati dalla popolazione locale ma la loro presa su Mandalay, la capitale economica della Birmania, è ogni giorno più salda. Di qui passano l’oro, l’uranio, la giada, i rubini e gli zaffiri delle miniere della corona di montagne tutto intorno. Nelle cave il lavoro forzato è quasi un’ovvietà e, dice Piyamal Pichaiwongse dell’ufficio della International Labour Organization dell’Onu a Yangon, chi lo denuncia spesso viene aggredito o arrestato. La posta in effetti è enorme: i rubini birmani valgono da soli il 90% del commercio mondiale del settore e la qualità della giada, detta «imperiale» per il suo verde intenso e trasparente, è la migliore in circolazione. Ufficialmente le pietre sono la terza voce dell’export birmano (300 milioni di dollari di fatturato dichiarato nel 2007) e vanno in vendita quasi solo alle aste della Union of Myanmar Economic Holdings, il consorzio del ministero della Difesa. Ma il suo sito web è fermo: annuncia la «prossima» asta al gennaio 2008, un anno e mezzo fa. anche questo l’effetto delle sanzioni europee e statunitensi; case come Cartier, Bulgari o Tiffany promettono che non useranno mai più gemme birmane.
Ma basta passeggiare nel centro di Mandalay, per capire perché i generali possano disinteressarsi dell’indignazione dell’alta moda o delle sanzioni occidentali. Qui la densità di negozi di gemme e preziosi è più alta che a Midtown Manhattan. All’incrocio fra l’ottantesima e la ventinovesima strada di Mandalay si apre su quattro porte, come un supermercato, una della catena di oreficerie di Maung Kain, un tycoon locale cinese che si è «comprato un nome birmano». All’interno un allegro nugolo di ragazzine Wah, la tribù filo-cinese della frontiera orientale, conoscitrici ancestrali delle pietre e delle miniere, serve con cura ogni cliente: stranieri praticamente di ogni Paese. Dall’altra parte della strada lo stesso accade nella gioielleria di Waint Li, un ennesimo ricco Han naturalizzato a forza di tangenti.
Le società di questi investitori di solito sono partecipate al 20% dagli esponenti locali o nazionali della giunta, ma le pietre e l’oro se li procurano da soli. Non è difficile, una volta ottenuta la cittadinanza: ogni anno il ministero delle Miniere bandisce sui giornali concessioni di sfruttamento su un lungo elenco di lotti minerari numerati, ufficialmente solo per chi abbia nazionalità del Myanmar. Per ammansirli, ai birmani di nascita il governo concede l’esclusiva sui rubini e gli zaffiri, ma i cinesi che hanno comprato la loro carta d’identità concorrono e vincono sulla giada e per l’oro. La tassa di concessione di un anno su circa 50 metri quadri di giada costa l’equivalente di cinquemila euro e alla fine, spiega un concessionario locale, la giunta ha un’opzione sull’acquisto delle pietre migliori; il prezzo, in quei casi, è imposto. In questo i generali agiscono come capi-mafia: non forniscono lavoro, capitali o idee, cercano solo di estrarre il massimo reddito da ogni stadio della filiera.
Anche per gli altri, quelli senza concessioni, rimediare non è difficile. Basta andare al mattino presto in fondo a un quartiere di monasteri, fra i bonzi che appendono le tuniche color terra ad asciugare per strada. Lì c’è un miglio quadrato chiamato Kyauk Wine, il mercato della giada: centinaia di mercanti vendono pietre in infinite forme e qualità. C’è chi mette i bambini alla mola, fra i getti d’acqua bollente, e chi vende solo pietre grezze. Sembrano semplici sassi: sta al cliente capire il pregio dalla «polvere da sparo », lo scintillio di superficie. Mercanti cinesi, febbricitanti per la giada, ma svelti, duri, occupano le bancarelle, si girano le pietre fra le mani, le studiano trafiggendole con certe torce ad alta intensità. Uno offre mille dollari per alcuni tagli, il venditore ne vuole 1.500. Si separano; possono continuare così per giorni. Per ingannare l’attesa, il mercato ha qua e là tavoli da biliardo sempre affollati. In questo miglio quadrato vanno in vendita in un mattino gemme per decine di milioni di euro. Nella polvere si aggirano due monache di 6 o 7 anni, raccogliendo molecole di denaro in offerta. Vestite di rosa, calve, composte come sono nel caldo ardente, sembrano anche loro di una serietà impassibile.