Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  luglio 17 Venerdì calendario

COSì LE SANZIONI AIUTANO LE DITTATURE


Questo mese, mentre le demo­crazie del mondo condannava­no il regime di Teheran, un al­tro evento nella capitale iraniana ha attratto un’attenzione un po’ minore. «Cnooc» ha firmato un accordo con la National Iranian Oil Company: il co­losso petrolifero cinese quotato a New York trivellerà i giacimenti di gas di North Pars. Mesi fa «Cnooc» e «Nioc» avevano concluso un contrat­to sulla fornitura di gas per i prossi­mi 25 anni.

Per i cinesi, ma anche per russi e indiani, non è difficile di questi tem­pi concludere affari con il regime di Ahmadinejad. La pressione occidenta­le per imporre sempre nuove sanzio­ni sta crescendo e i francesi di Total, come anche l’Eni, hanno fatto un pas­so indietro nelle ultime gare sulle concessioni. Ma l’Iran non è il solo ca­so nel quale le sanzioni, bloccate in consiglio di sicurezza dell’Onu dalla Cina o dalla Russia, servono soprat­tutto ad aprire la strada alle nuove po­tenze emergenti perché vengono ap­plicate solo da quelle avanzate. Anzi­ché mettere sotto pressione regimi criminali, le misure decise a Washing­ton e Bruxelles finiscono per conse­gnarli a alleati che in cambio chiedo­no loro solo materie prime a basso co­sto. In Sudan Omar al-Bashir è il pri­mo capo di Stato contro il quale il Tri­bunale penale internazionale abbia spiccato un mandato d’arresto (per il Darfur) ma il ministro delle Finanze di Khartum si reca a Pechino ogni me­se: il petrolio del Kordofan (Sudan del sud) viene prodotto quasi tutto da «Petrochina-Cnpc» e la Repubbli­ca popolare garantisce circa metà del bilancio di Bashir, più armi e infra­strutture. L’oleodotto dal Kordofan a Port Sudan, 1.840 chilometri verso il Golfo, è stato costruito in buona par­te da carcerati cinesi in cambio della libertà: più che un acquisto di barili, è un baratto. Ma anche la malese «Pe­tronas » e l’indiana «Ongc», entram­be statali, condividono le stesse con­cessioni con quote di minoranza.

La lezione è che gli emergenti han­no i mezzi per riempire i vuoti degli avanzati, e lo fanno. «Non siamo più negli anni ”80, quando le sanzioni avrebbero avuto un effetto – osser­va un diplomatico indiano ”. Il mon­do è andato avanti, tecnologicamen­te, come capacità finanziarie e nei rapporti di potere. Voi occidentali do­vete riconoscere questa realtà». Da nessuna parte ciò è più evidente che in Birmania. Gli Usa l’hanno posta sotto una cappa di sanzioni; l’Europa non l’ha fatto sul greggio e il gas per la presenza di Total ma ha colpito le pietre preziose, i metalli, il legno di tek (che certi costruttori italiani di yacht importano comunque tramite triangolazioni). Il risultato è che gli investimenti esteri del Paese sono esplosi da 172 milioni a un miliardo in due anni grazie, ancora una volta, a Russia, India e Cina. I russi stanno costruendo per la giunta birmana una centrale elettrica a gas e una rete di canali sotto la nuova capitale Naypydaw per assicurare ai generali la fuga in caso di attacco. I cinesi estraggono e comprano le gemme, e hanno appena concluso con «Cnooc» un enorme contratto sul gas; anche i sudcoreani cooperano con Yangon sui giacimenti, fin dai tempi in cui mi­nistro degli Esteri era l’attuale nume­ro uno dell’Onu Ban Ki Moon. I conti degli esponenti della giunta sono poi depositati in banche di Dubai e di Shanghai, dopo che Berna e poi Singa­pore li hanno allontanati su pressio­ne del Tesoro Usa. Quanto agli india­ni, ricostruiscono a loro spese il por­to birmano di Sittwe e comprano due terzi della produzione di legumi, la se­conda al mondo dopo quella canade­se.

Quanto alle sanzioni, spesso ven­gono aggirate. Import, export, paga­menti elettronici, attività di «Roth­mans- British American Tobacco» o dell’olandese «Heineken»: quasi tut­to viene trasferito o triangolato su Singapore. L’effetto sono sovraccosti di almeno il 10% che spingono l’infla­zione al 30%. Le sanzioni non colpi­scono la giunta, ma tagliano fuori la diplomazia occidentale e fanno soffri­re di più solo i poveri e gli oppressi.

F. Fub.