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 2009  luglio 20 Lunedì calendario

MATERIE PRIME PER VOCE ARANCIO



A conti fatti sarebbe stato meglio investire sul cacao e sullo zucchero. Chi avesse acquistato contratti futures su una tonnellata di zucchero bianco un anno fa oggi avrebbe guadagnato il 20,25%, chi avesse scommesso sul cacao avrebbe avuto un ritorno sull’investimento del 5,82%. Nessun’altra materia prima ha fatto meglio. Certamente non il petrolio (-57%), non il rame (40%) e nemmeno l’oro (-3%).
Quotati al Liffe (il London International Financial Futures and Options Exchange) cacao e zucchero sono alcune delle cosiddette ”soft commodities”, materie prime ”morbide” che, generalmente, si distinguono da quelle tradizionali perché sono coltivate (o allevate) e non estratte. Il loro è un mercato che non è da tutti. Investire su zucchero e cacao difatti è molto costoso: la quantità minima richiesta per il trading di zucchero è di 50 tonnellate (che oggi valgono 23mila dollari), per il cacao bastano 10 tonnellate (e un investimento minimo di 17.090 sterline ai prezzi attuali).
Tra le soft commodities rientrano anche la pancetta di maiale congelata (i ”frozen pork bellies”, che in un anno ha perso il 4,76%) e il maiale vivo da macellare (i ”lean hogs”,-13,7% in un anno). Anche sul maiale – quotato al Chicago Mercantile Exchange – bisogna giocare forte. La soglia minima di acquisto è a 40mila libbre (18,14 tonnellate), e oggi 40mila libbre di bacon o maiali vivi (entrambi i prezzi sono attorno ai 62 centesimi di dollaro per libbre) costano più o meno 25mila dollari. Più care ancora le mucche (32.800 dollari per 40mila libbre) che in un anno si sono svalutate del 18% e ancora più costoso il succo di arancia congelato: si paga 93 centesimi per ogni libbra.
Ma i maiali, le mucche, il succo di arancia sono realtà minori tra i prodotti agricoli quotati. Hedge fund e investitori internazionali puntano abitualmente sui più tradizionali grano, soia e mais. Chi ci ha scommesso un anno fa ci ha perso parecchio: il prezzo dei cereali è calato del 50% in un anno, quelli di grano e soia del 35%. Dopo avere dato segni di miglioramento in aprile e maggio (il grano aveva ripreso il 25% in due mesi, i cereali il 20%) nella seconda metà di giugno sono tornati a scendere pesanti. In pratica sia i cereali che il grano – quotati in bushel (27 chili) al Chicago Board of Trade – a fine giugno si sono rimangiati i rialzi di inizio d’anno.
Sembra che stiano giocando con i futures alimentari anche i fondi sovrani dei Paesi arabi. Usano il cibo come fosse il petrolio: un investimento per proteggersi dal rischio del calo del dollaro.
Il mais è la principale coltura degli Stati Uniti con un valore nel 2008 di 47,4 miliardi di dollari, la soia è la seconda, con un valore da 27,4 miliardi.
Prima il valore dei prodotti agricoli non variava tanto. Seguiva l’andamento, sempre più o meno prevedibile, al di là di scossoni climatici, guerre o carestie, della domanda mondiale. L’impazzimento del prezzo delle materie prime alimentari è cosa recente. Nel 2005 grano, cereali, ma anche soia e grano hanno avviato un’impressionante corsa terminata nell’estate del 2008. In tre anni i cerali avevano guadagnato il 229,5%, la soia il 159,9%, il frumento il 143,8%.
Dietro quegli aumenti, spiegavano la Fao (l’ Organizzazione delle Nazioni Unite per l’ agricoltura e l’alimentazione), gli economisti, gli analisti e i capi di Stato, c’era l’impiego sempre più massiccio delle materie prime agricole per la produzione dei biocarburanti e nel campo delle biotecnologie. La produzione mondiale di bioetanolo – carburante che il primo produttore mondiale, gli Usa, ottengono dai cereali mentre il secondo, il Brasile, estrae dallo zucchero – dovrebbe raggiungere gli 80 miliardi di litri. Nel 2005 se ne sono prodotti solo 10.
Il Dipartimento statunitense dell’ Agricoltura (Usda) prevede per la campagna 2009-10 una caduta del 28% nelle scorte americane di mais e un aumento dell’ utilizzo di questo cereale per la produzione di etanolo, sulla scia delle politiche di Barack Obama, favorevole alle fonti di energia alternative. La legge statunitense varata nel 2007 garantisce per l’ anno in corso la produzione di di 10,5 miliardi di galloni di biofuel (circa 40 miliardi di litri) da mescolare con i carburanti tradizionali, contro i 9 miliardi del 2008.
In alcuni paesi equatoriali si sperimenta la produzione di biocarburanti derivati dalla jatropha, una pianta velenosa che cresce senza particolari cure, non ha bisogno di molta acqua, ed è molto semplice estrarne olio. Elisabetta Macioce, collaboratrice dell’Istituto Bruno Leoni, spiega che ”se gli studi tuttora in atto confermassero questi primi dati, terreni inutilizzati come i deserti potrebbero essere messi a coltura per produrre biomassa e si eviterebbe il disboscamento di aree verdi incontaminate”.
Oltre all’impiego di cereali e grano per il carburante, spingevano il prezzo degli alimentari il timore dei cambiamenti climatici – che sollevano dubbi sul futuro della produzione – la crescente domanda di cibo delle economie emergenti, India e Cina, e una componente di speculazione.
Nel 1995 la Cina era il più grosso esportatore mondiale di soia. Oggi è il primo importatore: il 70% del suo fabbisogno di soia arriva da Stati Uniti, Brasile e Argentina. I cinesi comprano soprattutto soia Ogm, che costa meno e produce più olio. I suoi contadini però non ne producono. Difatti non hanno quasi più mercato.
Ma dietro quei rialzi c’era anche altro: il cambiamento della politica europea. Il Pac, la nuova politica agricola comunitaria, ha interrotto la tradizione quarantennale di finanziamento i contadini europei, che aveva l’obiettivo di tenere i prezzi delle materie prime alti e stabili. I prodotti in eccesso venivano svenduti o distrutti. I nuovi accordi hanno cambiato tutto. Il mercato è stato liberalizzato, le sovvenzioni ridotte, le aziende aiutate a ristrutturarsi. Risultato: adesso il prezzo lo fa il mercato.
Raj Patel, studioso indiano delle politiche alimentari, docente a Berkeley e a KwaZulu-Natal (Sudafrica), ex della Banca Mondiale e del Wto, ha scritto ”I padroni del cibo” dove parla delle storture dell’industria dell’agrobusiness. Spiega: ”C’è una somiglianza tra il fenomeno attuale e le carestie sino all’ultima guerra. Allora, nonostante ci fosse sempre cibo nelle vicinanze, le persone non potevano accedervi perché un drappello di speculatori controllava le derrate. La finanza internazionale fa lo stesso, adesso, su larga scala”.
«Il mercato delle materie prime agricole è viziato dall’azione di pochi gran di gruppi in grado di con trollare i flussi commer ciali e indirettamente so stenere i prezzi » conferma Gabriele Canali docente di Economia dei mercati agroalimentari presso l’Alta scuola in Economia Agro alimentare della Cattolica di Milano, ex consulente di Fao e Banca Mondiale.
L’India, durante la crisi alimentare, ha bloccato le esportazioni di riso non basmati. La crisi è rientrata, ma il blocco è ancora attivo. Il governo di New Delhi sta valutando di far cadere il divieto. Se lo facesse farebbe scendere il prezzo del riso, ma al tempo stesso 700 milioni di indiani rischierebbero di restarne privi.
Nella primavera del 2008 il prezzo dei cereali era così alto che alcuni contadini afghani si erano messi a coltivare grano al posto di papaveri da oppio. Non era un vero e proprio affare: un ettaro a papaveri rendeva 800 euro al contadini, uno coltivato a grano 350 dollari. Ma ai contadini evitava rischi legali. In Afghanistan viene prodotto il 93% dell’oppio del pianeta.
La Fao dice che i prezzi raggiunti dagli alimentari lo scorso anno, in rapporto al potere d’acquisto, sono stati a livello globale i più alti degli ultimi 30 anni. E sempre la Fao prevede per il prossimo biennio un calo dei prezzi degli alimentari compreso tra il 4 e il 9% annuo per quest’anno e il prossimo. Anche se è la stessa Fao che poco più di un anno fa (nel suo rapporto trimestrale dell’aprile 2008) diceva che i prezzi non sarebbero più scesi.
Invece sono calati, in linea con quelli del petrolio, del rame, dell’acciaio, anche del legno. Cioè di quasi tutte le materie prime. Sempre esclusi cacao e zucchero.
Attenzione però, ha avvertito la Fao: i benefici di questo calo si sono sentiti solo in Occidente. Se in Usa e in Europa i prezzi sono scesi, nel Terzo mondo i generi alimentari restano del 24% più cari rispetto al 2006, un onere insostenibile per il potere d’ acquisto. Rispetto a due anni fa nei Paesi poveri bisogna lavorare dieci ore in più ogni settimana per sfamare una famiglia di cinque persone. Il 60% del reddito, nei paesi poveri, va in cibo. In Europa solo 15-18%, in Usa il 10-14%. Le persone che soffrono la fame, nel mondo, sono diventate 1,02 miliardi. Erano 963 milioni nel 2008 e 850 nel 2007, prima dell’emergenza alimentare.
Gli stessi governi africani si stanno organizzando per non restare senza cibo. Lo stato nigeriano di Yobe ha acquistato 25.000 tonnellate di grano per rimpinguare la sua scorta strategica. Il grano sarà venduto al pubblico a un prezzo calmierato alla fine della stagione di piantagione, quando gli agricoltori non hanno più scorte. Il governo ha anche messo a disposizione dei contadini alcuni trattori e sacchi di concimi assortiti, e ha assicurato che anche quest’anno i prezzi dei cereali resteranno stabili.
Se in Africa questi prezzi non permettono alle famiglie di sopravvivere, in Italia costringono i contadini a chiudere. La Cia-Confederazione italiana agricoltori ha spiegato che la crescita dei costi produttivi e il dimezzamento dei prezzi rende ormai poco conveniente produrre cereali in Italia. Caso esemplare: un’azienda cerealicola con 20 ettari di terreno sviluppa un valore alla produzione di circa 30 mila euro l’anno, compresi gli aiuti comunitari pari a 350 euro a ettaro. Per arrivare alla raccolta del grano occorre avere investito almeno un 25 per cento di questo valore in sementi, fertilizzanti, macchinari. Nell’ipotesi di un buon raccolto il contadino avrà a fine anno un capitale di 20 mila euro, da cui deve ricavare reddito per sé e per i braccianti.
Per il biennio 2009-2010 ci si aspetta un calo della produzione di cereali e frumento, perché i contadini hanno seminato meno considerato il ribasso dei prezzi. In alcuni paesi, come Ucraina e Brasile, la produzione cala perché i contadini non hanno più credito. L’International Grain Council prevede un calo dalle 1.782 tonnellate della stagione scorsa a 1.721 quest’anno. Le riserve si ridurranno del 4,3%, la domanda mondiale salirà a 1.736 tonellate (lo 0,8% in più).
L’ultimo rapporto unitario di Fao e Ocse sul prossimo decennio ha ridotto gli allarmi. Se nel 2008 le due organizzazioni parlavano di ”rialzo strutturale” dei prezzi degli alimentari, adesso ammettono che ci sono pochi elementi che ci lascino sospettare in un rincaro definitivo dei cibi. previsto un aumento in termini reali del 10-20% dei prezzi medi dei raccolti rispetto al decennio 1997-2006, mentre i prezzi degli oli vegetali potrebbero salire di oltre il 30%. Semplicemente non avremo più i prezzi bassi del decennio passato.