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 2009  luglio 18 Sabato calendario

«COME PUGILE NON ERO GRANCHE’». INTERVISTA A TYSON


LOS ANGELES – In principio il vide­ogioco era lui. Manovrato attraverso un joystick invisibile, spinto freneticamente verso l’avversario, dotato di cazzotti for­midabili, ma destinato ad esaurirsi rapi­damente.

Game over. Mike Tyson. Lo hanno manovrato per anni. Usavano la sua ignoranza come bo­nus, le sua ferocia come scudo. Sono di­ventati ricchi in molti mentre lui, sempli­cemente, passava di moda. Ora che ha 43 anni, Tyson ha preso in mano la console. Forse per la prima volta cerca di capire come funziona la vita anche se nessuno mai, dalla fetida Brownsville in poi, gli ha mai fornito il libretto delle istruzioni. Il videogioco si chiama FightNight 4, c’è la sua faccia in copertina, o meglio, la fac­cia di un Tyson precedente, antidiluvia­no, e lui si diverte con questa Playstation surreale che in fondo è la sua vita vissu­ta, sfidando i grandi del passato: Ali, Fra­zier...

Mike Tyson è a Los Angeles. A Hol­lywood è di nuovo campione d’incassi senza tirare un solo montante. Ha recita­to nel film più visto dell’estate america­na, The Hangover ( Un giorno da leoni).

Un altro film sulla sua vita, magistrale do­cumentario del regista e amico James To­back, sta in una settantina di sale in Ame­rica. E adesso, appunto, il videogioco. sovrappeso. Non lo rivedremo combatte­re, anche se gli sceicchi lo avrebbero rico­perto d’oro per opporlo a Holyfield, in un grottesco remake. vagamente inquieto. Il suo manager e amico comune, Harlan Werner, è l’unica ragione per cui siamo qui.

Nel 2005 lei abbandonò la boxe. Un po’ le manca?

«Assolutamente no. Ho avuto il mio tempo, la mia era. Altri forse sarebbero rimasti in circolazione. Io ci sono rimasto anche troppo».

Guarda il pugilato?

«Solo ogni tanto, ma più che altro i classici, le vecchie sfide».

Riguarda anche se stesso?

«Non ci penso neppure. Quando mi osservo, penso che in realtà non ero un gran pugile. Se fossi il mio maestro mi troverei orrendo, pessimo. Sbagliavo tut­to. Se ti guardi con obiettività lo scopri. Ma nessun pugile ammette di essere peg­giore di quello che crede».

C’è qualcuno nel passato che le piace particolarmente?

«Carlos Monzon. Aveva uno stile im­peccabile. Era autoritario, feroce, abilissi­mo. Praticamente invincibile. Lo sa bene il vostro Benvenuti».

Si parla di lei per qualcosa che non è

boxe né vicissitudini personali. Come si sente?

«Alla grande. Il cinema mi sta dando la possibilità di entrare in un nuovo capi­tolo della mia vita. Nuove persone, pro­spettive promettenti. La boxe è solo una parte confusa, piena di contraddizioni. Adesso ho la possibilità di vivere la mia vita conscio di quel che faccio. In un cer­to senso la boxe mi ha impedito di cresce­re ».

Si vede in futuro come attore?

«Non so, mi piacerebbe, ma ho biso­gno

di studiare recitazione, di avere ac­canto un regista che mi guidi. Di trovare un buon ruolo, un mio genere».

Magari un supereroe.

«Non me ne viene in mente nessuno. Però magari. Per mio figlio sono già un supereroe».

Quando divenne campione del mon­do, nel 1986, l’America non era tenera con gli afroamericani. Ora c’è Obama.

«Possiamo anche credere che sia me­glio. Ma non ho gli elementi per dire che adesso per i neri sono finiti i soprusi e le ingiustizie. Certo, è positivo per tutti noi, anche i neri repubblicani devono essere orgogliosi. Ma quanto il miglioramento sia reale, non so. Personalmente, il tratta­mento che ho ricevuto è sempre stato uguale e spesso poco gentile. Con Bush oppure Obama non conta».

Lei ha parlato anche di Berlusconi nel suo documentario. Che ricordo ha dell’Italia?

«Mi piace la Sardegna, Milano, il Sud. italiano un genio del nostro tempo, Gianni Versace. Ha definito un’era. In po­chi ci riescono».

Guardandosi indietro, in carriera, c’è un momento in cui si è sentito felice sul serio?

Riflette. Scuote il capo. «Non riesco a trovarlo. La mia carriera è come una mac­chia sfuocata. Non sono mai stato davve­ro felice. Era uno stile di vita nel quale non mi sono mai trovato totalmente a mio agio».

Possibile? Neppure un attimo di esal­tazione?

«Forse la vittoria del titolo, con Trevor Berbick. Ma ero troppo confuso:andai in giro con la cintura per tre settimane. Al­meno capii di aver compiuto qualcosa di importante. Però il mio maestro e secon­do padre, Cus d’Amato, non c’era più. Lo vinsi grazie a lui e non potei godermi l’at­timo ».

Una volte disse che lei odiava la folla, l’attenzione. Ora grazie al cinema è di nuovo tra la gente.

«La gente mi fermava e diceva: ”’Ehi Mike...’’ e mi dava una pacca sulla spalla. Ora mi ferma e dice: ”’Ehi Mike, ti ho vi­sto al cinema’’. un’umanità molto diver­sa, mi fa piacere ma so anche di dover la­vorare su me stesso per non fare gli erro­ri del passato».

Qual è il suo sogno?

«Continuare a fare quello che faccio. Essere migliore. Poter essere ricordato co­me Mike Tyson, ma non come pugile».