Francesca Sforza, La stampa 16/7/2009, 16 luglio 2009
”IN CECENIA TUTTI TEMONO DI VENIRE ASSASSINATI”
Natalia Estemirova aveva capelli biondo cenere e occhi chiari. Sua madre era russa, della generazione che doveva russificare il Caucaso. Una volta disse che non fu facile crescere in Cecenia con madre russa, «ma quando mai una cosa è stata facile, in Cecenia».
Niente di quei colori era trasmigrato nel volto di sua figlia Lisa, quasi l’avesse voluta difendere dall’odio che aveva sentito sulla pelle. L’aveva cresciuta da sola, e del padre non parlava volentieri. Voleva che Lisa studiasse l’inglese e andasse in America, ma non per restarci: «Se tutti i nostri ragazzi fuggono all’estero, chi rimarrà?».
Si alzava presto, in modo da essere tra le prime già in strada quando sarebbe arrivato il camion cisterna dell’acqua. A casa sua c’era l’ascensore, ma le scale erano state distrutte dalle bombe del 1999, per cui ogni volta la salita con il bidone dell’acqua si accompagnava alla speranza che il vecchio ascensore resistesse. Ma prima ancora dell’acqua, ogni mattina, al posto della sveglia, Natasha accendeva il suo portatile. Il saluto della musichetta di Microsoft era una delle poche cose che riusciva a strapparle un sorriso: «Questo è il mio archivio – diceva accarezzando il suo gattino, tra le mura della cucina dissestata, con vista sulle pianure avvelenate della periferia di Grozny – Non lo porto con me perché ho paura che me lo rubino o me lo distruggano, ma ogni mattina, quando Lisa ancora dorme, lo aggiorno con tutti i dati raccolti il giorno prima, in modo che niente vada perduto». Era settembre 2006, un giorno qualsiasi: «Ruslan, 18 anni, portato via di casa alle 21.30 da uomini col volto coperto, la madre dice che le hanno chiesto il passaporto del ragazzo come se neanche sapessero chi stavano portando via; Akhmed, 23 anni, arrestato mentre andava dal cugino, sua sorella ha portato una foto, non è riuscita ad avere notizie; ancora nessuna notizia della famiglia di Magomed a Vedeno». Lunghe liste di nomi, circostanze, date: «Qui in Cecenia solo Memorial tiene il conto dei morti»..
Nel frattempo era arrivato Timur, uno degli autisti che la portavano alla sede di Memorial, nel centro di Grozny, sempre un tragitto diverso, per non destare sospetti. «Non hai paura di essere uccisa?», le ho chiesto una volta. «A Grozny tutti hanno paura di essere uccisi», aveva risposto. Davanti alla porta del suo ufficio c’era sempre una piccola fila, per lo più donne. Ognuna con la sua storia di dolore, di attese nella notte, di spari all’alba, di agguati improvvisi. «Non ce la fanno ad andare a denunciare – diceva Natasha – sanno che non servirebbe a niente, e allora vengono qui e piangono, si sfogano, alla fine ringraziano anche». In realtà un po’ la facevano arrabbiare: «Se tutte avessero il coraggio di fare denuncia, il ministero degli Interni farebbe più fatica a dire che va tutto bene. Così resto solo io a raccontare le cose a voi giornalisti stranieri, alla fine sembrerò una pazza isolata». Odiava la discrezione, non sopportava quella mania tutta cecena di nascondere, di non voler parlare, quel terrore di passare per spie: «Ogni giorno è un massacro, e nessuno dice niente».
E poi odiava Kadyrov, lo odiava senza pudore. Un’amica le disse che era esagerata: «Non ti ricordi cos’era Grozny qualche anno fa? Almeno qualcuno ha rimesso in sesto le strade, i nostri uomini hanno ripreso a lavorare, bisogna cercare dei compromessi, Natja, non sei stanca di fare sempre e soltanto la guerra?». L’ho vista scattare come una leonessa: «Eccoli, già vi vedo, tutti ad applaudirlo per quei due sassi che è riuscito a mettere in fila. Non vi rendete conto, siamo nelle mani di un assassino, sì, dite pure che sono ossessionata, ma poi non venite da me quando i vostri figli non tornano a casa la sera».
In realtà chiunque poteva andare da lei in qualsiasi momento, anche nel cuore della più buia delle notti. Lei avrebbe acceso il suo computer e avrebbe annotato parola dopo parola. Conosceva tutti, anche le singole guardie dei check point, dove ha fatto transitare cose da mangiare, abiti, medicine, giornalisti clandestini, anziani bisognosi di cure e mogli di carcerati. «Mi fanno passare perché sanno che senza di me questo paese potrebbe essere soltanto peggiore», ripeteva. E così è, da ieri, la Cecenia smilitarizzata e normalizzata di Ramzan Kadyrov e dei suoi amici al Cremlino: più sola e peggiore.