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 2009  luglio 16 Giovedì calendario

1941: LA STRATEGIA GIAPPONESE E L’IMPREVIDENZA AMERICANA


Non avevo mai accordato particolare credenza alla tesi che Pearl Harbor fosse stato, per così dire, un «autogol» dello stesso presidente americano Roosevelt, attuato per consolidare, quale «Dictator bellico», i suoi poteri all’interno degli stessi Stati Uniti. Finché non ho letto un libro, «L’era americana», scritto dall’ambasciatore Rinaldo Petrignani, che quella tesi sostiene in pieno, e con una dovizia documentaria possibile soltanto a chi sia stato per tanto tempo in Usa con funzioni diplomatiche di alto livello.
Gianni Caroli
gio.caroli@tiscali.it

Caro Caroli,
La sua lettera contiene altre considerazioni sulla politica estera americana, soprattutto nell’ultimo decennio, ma il tema centrale è quello di Pearl Harbor su cui vale la pena di ritornare. Il libro di Petrignani è apparso nel 2001 e contiene in effetti pagine molto interessanti sul­l’attacco giapponese che pro­vocò l’ingresso degli Stati Uni­ti nel conflitto. Ma temo che lei abbia male interpretato le conclusioni dell’autore.

Petrignani riassume anzi­tutto gli avvenimenti politici e militari che precedettero l’at­tacco. Dopo l’invasione della Manciuria nel 1931 e l’attacco alla Cina nel 1937, il Giappo­ne si stava progressivamente impadronendo dell’intera In­docina.

Gli americani aveva­no reagito con un embargo sull’esportazione di materie prime e, in particolare, del pe­trolio. Ma l’autore esclude che Franklin Delano Roose­velt, nel 1941, volesse la guer­ra con il Giappone. «Sarebbe stata – avrebbe detto lo stes­so Roosevelt – la guerra sba­gliata, al momento sbagliato, nell’oceano sbagliato». Il pre­sidente americano riteneva in­fatti che la sconfitta del Giap­pone non avrebbe avuto ne­cessariamente per effetto la sconfitta della Germania, «mentre la sconfitta della Ger­mania avrebbe significato quella del Giappone». L’Ame­rica, secondo Petrignani, non era ancora preparata a un guerra nel Pacifico.

Piuttosto che di una delibe­rata provocazione americana converrebbe parlare quindi di un errore politico. Anziché da­re un colpo mortale alle ambi­zioni imperiali del Giappone in Asia, come era nelle inten­zioni americane, l’embargo petrolifero ebbe l’effetto di rafforzare a Tokyo il partito della guerra. Costretto a sce­gliere fra l’abbandono della Ci­na e un’operazione militare di­retta a conquistare i giacimen­ti petroliferi malesi e indone­siani, i giapponesi scelsero ri­solutamente la seconda stra­da. «Ma l’attacco alla Malesia e all’Indonesia – osserva Pe­trignani – presupponeva, sempre nella mente dei milita­ri giapponesi, la preventiva neutralizzazione della poten­za navale americana nel Pacifi­co per evitare il rischio (forse sopravvalutato) di essere at­taccati dagli americani alle spalle dopo che il rischio di un attacco sovietico era già stato neutralizzato con il pat­to di non aggressione firmato a Mosca nell’agosto 1941». Gli Stati Uniti capirono che la reazione giapponese sarebbe stata militare, ma credettero che i bersagli sarebbero stati la Malesia, l’Indonesia, forse le Filippine. L’attacco contro Pearl Harbor li colse di sorpre­sa e divenne per questa ragio­ne «il giorno dell’infamia». Sa­rebbe stato meglio definirlo il giorno dell’imprevidenza.