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 2009  luglio 16 Giovedì calendario

GENERAZIONE «NE’-NE’» SETTECENTOMILA GIOVANI «INATTIVI CONVINTI»


Hanno da 25 a 35 anni: niente lavoro, niente studio

MILANO – «Mi chiamo Ma­ria Elena Crespi, Malena per i miei quattro amici, ho 23 anni, vivo alle porte di Milano, non studio e non lavoro. Provo ver­gogna per questo? Io no». Male­na è un nome e cognome, un vi­so acqua e sapone, e una storia di disillusioni e non impegno convinto che gli spagnoli cata­logano sotto l’insegna Genera­ción «ni-ni»: ni estudia ni tra­baja: generazione «né» studio «né» lavoro. Adolescenti e gio­vani. Spagnoli e italiani, inglesi e americani. Tanti. Sempre di più. Anche se non la maggioran­za.

In Italia il fenomeno non ha un’etichetta, non ancora, ma so­ciologi e psicologi lo conosco­no bene. E i dati inediti del Rap­porto Giovani 2008, elaborati dal Dipartimento di Studi socia­li, economici, attuariali e demo­grafici della Sapienza di Roma per conto del ministro della Gioventù Gorgia Meloni, sem­brano certificarlo. Ancor più quando vengono incrociati con le anticipazioni dell’indagine Istat sulla Forza lavoro 2008. Nella fascia di età tra i 15 e i 19 anni ci sono 270 mila ragazzi che non studiano e non lavora­no (il 9%): la maggior parte per­ché un lavoro non lo trova; 50 mila perché della loro inattività ne fanno una scelta; 11 mila, poi, proprio perché di lavorare o studiare non ne vogliono sa­pere («non mi interessa», «non ne ho bisogno»). Stessa tenden­za nei dati relativi ai giovani tra i 25 e 35 anni: un milione e 900 non studia e non lavora. Vale a dire: quasi uno su quattro (il 75%). Un milione e 200 mila di questi gravitano nella disoccu­pazione (ma tra loro c’è chi di­ce di non cercare bene perché è «scoraggiato» o perché «tanto il lavoro non c’è»). Settecento­mila sono invece gli «inattivi convinti»: non cercano un lavo­ro e non sono disposti a cercar­lo. stato calcolato che se aves­simo tassi occupazionali pari a quelli dei Paesi bassi (capolista nella classifica Ue, 81,3% nella fascia d’età tra i 15 e i 39 anni), il nostro Pil guadagnerebbe 1­2 punti in percentuale.

Ma il fenomeno «né-né» è qualcosa che va oltre i numeri. In Spagna, dice una recente in­dagine di Metroscopia pubblica­ta su El País in occasione del battesimo massmediatico della Generación «ni-ni», il 54% dei giovani tra i 18 e i 35 anni di­chiara di «non avere un proget­to su cui riversare il proprio in­teresse o le proprie illusioni». Il leitmotiv: «Lo studio? tempo perso, non mi apre le porte al futuro. Il lavoro? Non lo cerco perché tanto non lo trovo». E la crisi sembra aver accentuato la rinuncia a qualsiasi impegno. Soddisfatti della loro vita priva­ta (lo è l’80%), i giovani spagno­li si sentono in preda a una «de­vastazione lavorativa». E anche chi alla fine sceglie di studiare, lo fa senza prospettive. «Appe­na si rendono conto di cosa li aspetta continuano a formarsi, viaggiano, lavorano magari co­me camerieri per pagarsi un master mentre mamma e papà a casa li aspettano».

Stesse tonalità per la fotogra­fia scattata ai giovani «né-né» nostrani: coccolati dalla società e iperprotetti in famiglia come i «bamboccioni» ma troppo con­sapevoli delle loro scelte per fi­nire sotto l’etichetta; apatici e un po’ disarmati come i figli del­la «generazione x» ma anagrafi­camente troppo giovani per es­sere loro apparentati; circonda­ti da fratelli e amici icona della «generazione mille euro» ma troppo disillusi per provare a lo­ro volta a infilarsi, prima o do­po, nella stessa realtà. «Non la­vorano perché la famiglia li mantiene e un impiego non si trova; non studiano o studiano meno di una volta per i pro­grammi più leggeri, la mancan­za di selezione», dice la psicote­rapeuta Anna Oliverio Ferraris. «Se poi il modello è quello alla Grande Fratello (basta andare in tv per guadagnare) passa il concetto che per riuscire non serve impegnarsi. E ci si lascia vivere fino a 30 anni senza un progetto. Le motivazioni, inve­ce, si coltivano fin dall’infanzia. Insieme al concetto che la real­tà è anche lotta e sacrificio. E per questo è bella».

Malena, nella sua stanza tap­pezzata di libri, annuisce: «Ve­ro. Ma io lotto per quello che va a me. E per ora sto bene così. Forse un po’ meno i miei geni­tori, la mia vecchia prof di lette­re che ha sempre visto per me un futuro ’promettente’ (che parolaccia). E forse anche la so­cietà che non accetta quelli che cercano una strada diversa dai mille e 120 euro al mese di mia sorella laureata-dottorata». «Ci fosse però quella strada – ag­giunge Daniele, dietro un no­me di fantasia – me l’hanno ru­bata. Mio fratello ha fatto di tut­to per fare contento il mondo e s’è trovato senza un lavoro e senza se stesso. Io a me non ri­nuncio, ma così sto male». Enri­co B., 26 anni, non studia, non lavora, ma ha una compagna e un figlioletto a cui badare: «Il mio lavoro? Per mesi è stato cer­care un lavoro. Adesso prendo quello che viene». E al bimbo chi pensa? «Mia madre e mio padre. Per ora viviamo con lo­ro, poi si vedrà».