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 2009  luglio 14 Martedì calendario

Il ring senza vincitori sulle macerie di Harare Nel paese dell’Africa australe, afflitto da un’inflazione a sei zeri e da una disoccupazione spaventosa, il governo di unità nazionale tra l’inamovibile Mugabe e il suo oppositore Tsvangirai segna il passo

Il ring senza vincitori sulle macerie di Harare Nel paese dell’Africa australe, afflitto da un’inflazione a sei zeri e da una disoccupazione spaventosa, il governo di unità nazionale tra l’inamovibile Mugabe e il suo oppositore Tsvangirai segna il passo. Reportage da un paese in agonia, in cui lo stato è in bancarotta e i giovani preferiscono l’esilio, in attesa di tempi migliori I due uomini si guardano compiaciuti. «Robert, lavoriamo alla grande insieme». «Sì, Morgan siamo proprio una coppia affiatata». Passa un secondo e cominciano a prendersi a schiaffi. Intorno, la folla ride a crepapelle. Siamo a First Street, la via più centrale di Harare, tradizionale palcoscenico per attori, comici, sfaccendati, chiunque voglia esibirsi in pubblico sperando di raccattare qualche soldo. Oggi va in scena la parodia del «governo inclusivo». Due uomini, uno magro e torvo, un altro più in carne, sono i protagonisti dello show: recitano rispettivamente la parte di Mugabe e Tsvangirai, il perenne presidente dello Zimbabwe e il suo oppositore più accanito, ormai uniti per far uscire il paese dalla bancarotta in cui si dibatte. Lo spettacolo di First street è sintomatico dell’umore che attraversa oggi questo stato derelitto: mostra la disillusione di un popolo che ne ha viste troppe per credere a quest’ultimo gioco di prestigio, ma indica anche un allentamento della repressione da parte degli agenti di pubblica sicurezza. «Ormai in Zimbabwe si può parlare di tutto. L’anno scorso, una scena del genere sarebbe stata dispersa dalla polizia e si sarebbe conclusa con una serie di arresti», afferma Arthur, un sostenitore del Movement for Democratic Change (Mdc), il partito di opposizione ormai entrato nel governo. Dopo le elezioni presidenziali dell’anno scorso (in cui Tsvangirai aveva ottenuto più voti al primo turno di Mugabe e si è poi ritirato a causa delle intimidazioni), le estenuanti trattative condotte con la mediazione del Sudafrica, un’economia collassata sotto il peso di un’inflazione che ha raggiunto la cifra record di 231 milioni per cento, nel febbraio scorso è stato inaugurato il «governo inclusivo», in cui i tre partiti più rappresentativi (la Zanu-Pf di Mugabe e le due fazioni del Mdc) hanno scelto di mettere da parte i propri dissapori e lavorare insieme per il rilancio del paese. Tsvangirai ha quindi accettato il ruolo di primo ministro, in un quadro di condivisione del potere poco chiaro, con la prospettiva di scrivere una nuova costituzione e andare alle elezioni entro un anno. Da allora, la situazione sul terreno è migliorata. C’è meno repressione. Il dollaro zimbabweano - di cui circolano ancora banconote senza valore con tagli da 50 miliardi - è stato accantonato e sostituito dal dollaro Usa. Negli scaffali dei supermercati sono ricomparsi i generi di consumo. C’è una parvenza di normalità, anche se in pochi hanno un lavoro. Molti si arrangiano, cercano di racimolare qualche soldo andando in Sudafrica o vendendo di contrabbando le pietre e i metalli preziosi di cui abbonda il paese (soprattutto oro e diamanti). «La situazione è come sospesa», racconta il presidente di una Ong locale che preferisce mantenere l’anonimato. «Il paese sembra normale, nelle strade si parla di tutto. Ma certo le speranze suscitate all’inizio dal governo di unità stanno già tramontando. A livello politico ed economico, lo Zimbabwe è nell’impasse». In effetti, la parodia di First street non è tanto lontana dalla realtà: Mugabe e Tsvangirai lavorano insieme, ma giocano su tavoli separati. Il primo cerca di screditare il secondo accusandolo di «essere un fantoccio nelle mani delle potenze occidentali». Il secondo fa finta di nulla e si affanna a dire urbi et orbi tutto il meglio del capo dello stato, che fino a pochi mesi fa dipingeva come un autocrate. Tsvangirai afferma di lavorare per la ricostruzione del paese. Ma, barcamenandosi in un equilibrio a dir poco instabile, a volte prende grandi scivoloni, come quando ha esortato in una riunione affollata in una chiesa di Londra la comunità zimbabweana in Inghilterra (composta per lo più da rifugiati politici fuggiti dalle vessazioni dagli uomini della Zanu-Pf) a rientrare in patria e ha ricevuto in risposta un coro di fischi. Due bari su due tavoli Due tavoli, due agende separate, uno stallo che mostra in modo lampante i limiti di questa coalizione improbabile. Ognuno lavora per sé, cercando di accreditarsi come il paladino dello Zimbabwe. Se il primo ministro vola in Occidente per raccattare fondi per la ricostruzione, il presidente manda una delegazione in Cina per trovare più soldi. Se il premier afferma che gli uomini più compromessi con il collasso del paese - come il capo della Banca centrale Gideon Gono, che ha fatto esplodere l’inflazione e nel frattempo si è arricchito oscenamente - saranno rimossi, il presidente un minuto dopo lo contraddice sostenendo che il banchiere capo rimarrà al suo posto. Se il primo ministro sostiene che i giornalisti possono lavorare liberamente e senza accredito, il ministro dell’informazione della Zanu-Pf dichiara che ogni cronista presente illegalmente nel paese sarà arrestato. In questo quadro di conflitto permanente, tutto appare bloccato. La stessa discussione sulla nuova costituzione si è arenata su un punto non secondario: i poteri del presidente e il limite dei mandati. Solo ieri, una riunione sulla bozza della carta è finita in rissa. Sullo sfondo di questo gioco delle parti, lo Zimbabwe affonda. Per la ricostruzione ci vorrebbero 8 miliardi di dollari. Tsvangirai, che ha girato come una trottola per tre settimane tra Europa e Stati uniti, ha ottenuto molte pacche sulle spalle e ben pochi quattrini. I governi occidentali non hanno alcuna intenzione di versare fondi che potrebbero finire nelle mani dell’odiato Mugabe. Hanno quindi dato pochi spiccioli per le emergenze, che dovranno essere gestiti dalle Ong. I grandi nomi del regime hanno accusato Tsvangirai di aver portato avanti un ego-tour. Il vecchio presidente ha rinnovato le sue accuse contro l’Occidente, che in effetti ha deciso che era un tiranno solo dopo che tra il 1999 e il 2000 ha deciso di espropriare le terre dei bianchi. In tutto ciò la popolazione dei centri urbani - serbatoio di voti dell’Mdc - comincia a guardare con sospetto Tsvangirai e i suoi e a pensare che sono entrati nel governo solo per partecipare alla spartizione della torta. Perché la torta in effetti è gustosa. Ricco produttore di diamanti, oro e platino, lo Zimbabwe mostra ancora nella capitale i fasti di un tempo che fu. I grattacieli che si stagliano per il centro di Harare, l’asfalto ancora in ottimo stato, l’impeccabile pulizia delle strade raccontano di un paese con ottimi standard di vita. Oggi, quegli standard sono mantenuti solo da pochi eletti, che si aggirano per le vie di Harare con costosissimi Suv e vivono nei quartieri esclusivi a un quarto d’ora dal centro, in ville protette dal filo spinato. «Sono i grandi papaveri della Zanu-Pf e dell’Mdc. C’è una corruzione enorme in tutto il ceto politico, indistintamente», racconta il funzionario dell’Ong. Il resto della popolazione osserva con rassegnazione il crollo del paese, misura i piccoli miglioramenti apportati dall’arrivo del governo inclusivo e spera in un futuro più roseo. «Ci vuole madre natura» «Qui non accadrà nulla, finché non interverrà madre natura», esclama Bryan con un tono ultimativo. Vecchio reporter a The Herald, il giornale governativo che lui stesso definisce «pura propaganda», l’uomo vede come unica via d’uscita la morte del vecchio presidente, che oggi ha 85 anni. «Mugabe è un combattente, non si arrenderà mai. Continuerà a fare la guerra a tutti, all’Occidente che lo disprezza, ai vari agenti del neo-colonialismo e al suo stesso popolo, che non lo segue più e gli vota contro», continua Bryan. «Mugabe era un liberatore. Tutti noi lo abbiamo appoggiato. Poi ha fatto la riforma agraria e ha dato le terre ai suoi. Da quel momento è partita la deriva», si infervora il giornalista. Tutto è cominciato da lì. La riforma agraria è il peccato originale, l’operazione che ha trasformato l’eroe della liberazione in un dittatore impenitente. Quando il Labour di Tony Blair, da poco arrivato al potere, gli ha fatto sapere che non avrebbe versato una sterlina di risarcimento per le terre destinate all’esproprio, il presidente ha dato il via libera alle invasioni. I farmer bianchi sono stati cacciati, le fattorie occupate. Ma Mugabe - che ha accusato non senza ragione il Regno unito di non aver rispettato gli impegni presi al momento dell’indipendenza sugli indennizzi per le terre - non è riuscito ad opporre l’eccellenza al voltafaccia britannico. Le terre espropriate sono state affidate agli ex veterani o ad altri uomini a lui fedeli, che le hanno lasciate marcire nell’improduttività. Il paese si è avvitato in una crisi economica. In seguito all’esproprio, i governi occidentali hanno attaccato Mugabe e imposto le sanzioni. Lui ha messo il piede sull’acceleratore e approvato anche la legge sull’indigenizzazione, secondo la quale ogni società nel paese deve avere una partecipazione maggioritaria in mano a un cittadino dello Zimbabwe. Gli investitori internazionali si sono ritirati. Le fabbriche hanno chiuso. L’Occidente ha cominciato a dipingere Mugabe come un tiranno. E lui, preso alle strette, ha cominciato a comportarsi come un autocrate. Ha picchiato e imprigionato gli oppositori, imbavagliato la stampa, truccato le elezioni. La deriva autoritaria del grande liberatore, che aveva accettato di non toccare le terre dei bianchi al momento dell’indipendenza e permesso persino al leader razzista Ian Smith (che lo aveva imprigionato per anni) di restare nel paese, ha trascinato lo Zimbabwe nel baratro. Il Pil è crollato, la moneta è diventata carta straccia, l’ex granaio dell’Africa australe si è trovato a chiedere aiuti alimentari. I giovani sono andati all’estero, soprattutto in Sudafrica, dove oggi ci sarebbero almeno tre milioni di zimbabweani. «Lo Zimbabwe è diventato una sorta di bantustan del Sudafrica. Importiano da lì manodopera a basso costo ed esportiamo le nostre merci», analizza Moeletsi Mbeki, vice-direttore del South African Institute of International Affairs, nonché fratello dell’ex presidente sudafricano Thabo. Oggi, il nuovo governo di unità nazionale Mugabe-Tsvangirai assicura che tutto andrà per il meglio. Sostiene che l’economia sta ripartendo e invita chi è partito a tornare in patria per «partecipare alla ricostruzione». Ma tra le strade di Harare, dove i più giovani si dedicano alle crossrates (il cambio in nero dollaro Usa-rand sudafricano), e tra i corridoi dei supermercati, dove gli acquirenti si aggirano con la calcolatrice perché le casse non hanno monete per i resti e tutti i conti si arrotondano per eccesso, regna il disincanto. «Io guadagno cento dollari al mese», racconta Calvin, che fa l’insegnante in una scuola. «Cinquanta li pago d’affitto, venticinque per il trasporto da casa al lavoro. Mi restano venticinque dollari per me, mia moglie e le mie due figlie. Davanti ho due opzioni: o rubo o vado in Sudafrica. Per il momento, preferisco partire».