Paolo Di Stefano, Corriere della sera 14/7/2009, 14 luglio 2009
«AVEVO 14 ANNI, MONTALE MI ILLUMINO’»
Arbasino: cercavamo i libri alla moda
Per illustrare anche visivamente dove press’a poco si può collocare, cronologicamente, la svolta della sua vita, Alberto Arbasino arriva nel giardino dell’Hotel de Russie, situato in un angolo di Piazza del Popolo, con in mano quattro volumetti. Sono vecchi libri ben tenuti e dalle copertine sobrie: le «Poesie» di Cardarelli (Mondadori 1942), «Ossi di seppia » (Einaudi 1943) e «Le occasioni» (Einaudi 1945) di Montale, i «Canti orfici» di Dino Campana (Vallecchi 1941). Portano tutti sulla prima pagina, vergato da lui stesso, il nome del possessore, Nino Arbasino («così mi chiamavano in casa»), con date che vanno dall’ottobre ”44 al marzo ”45. Erano gli ultimi mesi della guerra, il quattordicenne Arbasino era uno studente liceale a Voghera, dove il padre gestiva una farmacia sulla via Emilia. E c’è un quinto libro, che salta fuori un po’ dopo, con un autore che Arbasino definisce «decisivo» per la sua formazione: è il saggio su Dante di Eliot (Guanda), che porta la data maggio 1946. Dieci anni dopo il ragazzo di Voghera sarebbe volato a Londra per incontrare il suo poeta preferito, che lo avrebbe onorato di una dedica sui «Quattro quartetti»: «Inscribed for Alberto Arbasino by Thomas Stearns Eliot».
Torniamo al tempo della guerra. «I romanzi pubblicati dalla Medusa, da Bompiani e da Baldini & Castoldi li trovavamo in biblioteca, mentre i libri di poesia dovevamo andare a comperarli in cartolibreria, dove arrivavano le novità. Cardarelli, Campana, Montale erano i poeti che sentivamo nostri, i poeti del nostro tempo: lontanissimi da Carducci, Pascoli, D’Annunzio che leggevamo a scuola». Erano i poeti che non si potevano trovare nelle antologie scolastiche: «In quei mesi di bombardamenti e di coprifuoco sono stati la scoperta della nostra generazione, i libri che ci scambiavamo tra amici e compagni e di cui discutevamo: la lettura allora, nelle nostre provincie, era un’esperienza non individuale ma collettiva. Campana, per esempio, è rimasto indimenticabile: ricordo che mi impressionò la sua Genova, per non dire della sua Montevideo, diventata un miraggio alla Rimbaud, la città di Lautréamont e del mito garibaldino. Mi è rimasta dentro come un miracolo. Quando poi, di recente, ci sono andato ho visto un disastro, un posto crollante». A proposito di antologie scolastiche, Arbasino ricorda un titolo, «La dolce stagione»: «Si partiva dai Siciliani e dallo Stilnovo e si arrivava a prima degli ermetici, niente Novecento. I libri alla moda dei poeti dovevamo procurarceli noi. In quegli anni usciva da Mondadori un almanacco, ’Il Tesoretto’, che ci informava delle cose migliori dell’annata letteraria».
Estate ”44. Arbasino ricorda una piccola carovana di ragazzi e ragazze in bicicletta verso Pavia: «I ponti erano distrutti e passare sui ponti di barche con le biciclette era difficile, si rischiava di impigliarsi nei fili di ferro che tenevano insieme le zattere: bastava niente per cadere giù nel Ticino o nel Po. A Pavia c’erano allora due librerie, la Garzanti nel cortile dell’Università e l’enorme libreria Tarantola su Strada Nuova, con diverse stanze e scaffalature fino ai soffitti. Rimanemmo lì poche ore, scattarono le sirene dell’allarme due volte, il libraio ci fece uscire, tirò giù le saracinesche e noi aspettavamo fuori che riaprisse, appoggiati alle nostre biciclette. Fu una spedizione avventurosa».
I bestseller erano allora i vari Steinbeck, Caldwell, Cronin: «Ricordo che leggendo un romanzo di Cronin, scoprii il realismo, quando ancora il neorealismo italiano doveva arrivare: c’era un vecchio zio catarroso che sputava su dei fogli di giornale sistemati vicino al suo letto. Mi fece impressione, perché io a quel tempo ero abituato alle finezze di Rilke e di Valéry. Rimasi un po’ lì. Mi dissi: ma dove va la letteratura? Neanche nella Traviata o nella Bohème si scatarra… In quegli stessi giorni, poi, andammo a vedere ’Quattro passi tra le nuvole’ di Blasetti, con un Gino Cervi già molto famoso che a un certo punto, svegliandosi all’alba con il suo pigiama elegante, andava vicino a una finestra e si grattava il sedere».
Trovarsi sfollati in una casa di campagna nei pressi di Voghera doveva essere un’esperienza anche intellettuale: «Specialmente la domenica, andavano e venivano in visita vecchi cugini, presidi, avvocati, militari e monsignori. I versi dei libretti d’opera erano tanto disprezzati dai nonni, ma loro li citavano accanto al tanto riverito Carducci del ’T’amo pio bove’. Era un continuo sentire frasi del melodramma come citazioni familiari, magari scherzose, pronunciate un po’ tra virgolette: ’Questa e quella per me pari sono…’, o ’Un bel dì vedremo’. Questo disprezzo per l’opera nel primo Novecento si ritrova anche in Palazzeschi e Gadda. Per i nonni il baritono era sempre un nano, il tenore un vecchio e il soprano una grassona. Per la nostra generazione, invece, l’opera e i suoi libretti sono stati una grande riscoperta». Le case di campagna della borghesia cittadina di provincia, tra Casteggio e Voghera, erano anche dotate di biblioteche notevoli, dove un ragazzino curioso poteva sbizzarrirsi: «C’erano vecchie antologie ottocentesche che contenevano poeti francesi già obliati allora, figurarsi oggi. Erano libri un po’ d’arredo dove si trovavano tante cose. Mio nonno aveva una collezione di volumetti di classici usciti a Milano, con traduzioni in rima di poeti latini e greci, da Anacreonte a Orazio. Traduzioni di tipo pariniano con versi che facevano un effetto ridicolo, pieni di doppi sensi: ’un cacciator fanciullo in folto bosco cercando augelli vide Amor fuggiasco…’. Da crepar dal ridere».
Fatto sta che le sere d’inverno in casa, in quei mesi, assecondavano la lettura: «Con il coprifuoco non si poteva uscire, le persiane rimanevano chiuse e spesso bisognava anche dare una mano di vernice blu ai vetri per evitare che le ronde sparassero. La sera si andava a letto con le lampadine accese sotto le lenzuola e si leggeva di tutto, da Thomas Mann alla Blixen, mentre le zie erano di là ad ascoltare le commedie radiofoniche. Nell’estate del ”43 le coste liguri erano blindate e fui mandato a Ponte di Legno in un collegio laico di montagna, dove c’erano tanti coetanei milanesi, cremonesi, genovesi, emiliani ». Anche lì grandi letture. E magari qualche coetaneo rimasto amico per una vita: «Le letture alla moda, a Ponte di Legno, erano Vittorini ( Conversazione in Sicilia) e Comisso, circolavano anche riviste di cinema. Ma soprattutto tra i compagni c’erano due fratelli di Parma allievi di Pietrino Bianchi e di Attilio Bertolucci, e dunque erano pieni di libri di poesia contemporanea. Quelli che scoprivamo allora e che sarebbero diventati i classici moderni».