Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  luglio 14 Martedì calendario

LA GUERRA INFINITA DELL’IRRIDUCIBILE PRESIDENTE OMBRA


Sempre più nel mirino l’ex numero due più potente della storia Usa

WASHINGTON – Lo hanno chiamato Darth Vader come il cattivo di Star Wars. E lui non si è offeso. Anzi, quel soprannome – ha detto – mi ha reso più umano. Lo hanno accusato di aver incarnato «il lato oscuro» della strategia anti- terrore dell’epoca Bush. E lui non l’ha rinnegato: «Minacce dirette richiedono azioni decise, con tutta l’urgenza che il pericolo sollecita ». Risposte segrete, attività clandestine, operazioni con licenza di uccidere che Dick Cheney ha architettato con il placet del suo presidente. Un assenso che è diventato qualcosa di più. Cheney era il vice ma si è comportato da numero uno prendendosi tutto lo spazio concessogli da occasioni e circostanze. Quasi un presidente ombra che ha amato come una spia il mondo delle tenebre, dove tutto è permesso per difendere confini e interessi nazionali. Magari non nella legge ma per la legge, come piace ripetere ai vecchi guerrieri della Guerra Fredda.

Originario del Nebraska dove è nato 68 anni fa ma «adottato» nel Wyoming dove ha una splendida residenza di montagna, Cheney ha imposto un metodo di lavoro e dettato i tempi di quella che è diventata «la lunga guerra al terrorismo» interpretandola anche nei più piccoli dettagli. La sua agenda imponeva la sveglia alle 4.30 del mattino, seguita – due ore dopo – dal primo rapporto dell’intelligence, paginette in stile asciutto ma suc­cose per il palato di Cheney. Altre due ore e il vice si sedeva davanti al Capo. Faccia a faccia seguiti da colazioni di lavoro dove si prende­vano decisioni importanti. Com­prese quelle che hanno portato alle misure speciali per neutralizzare i terroristi: dagli omicidi mirati alla detenzione dei qaedisti senza un processo regolare, dalle prigioni Cia alle torture. Dicono che l’ulti­ma parola fosse quasi sempre la sua.

Iniziative non ortodosse che me­scolano carte e divise. Gli 007 si tra­sformano in Rambo e vanno a prendersi i militanti avendo cura di rispondere solo alla Casa Bian­ca. I soldati fanno il lavoro sporco dell’intelligence. A volte agiscono insieme. E Cheney si preoccupa di nascondere o proteggere program­mi che non possono essere com­presi da chi non ha stomaco. Men­tre lui, il vice, ne ha da vendere. Quando Al Qaeda colpisce l’Ameri­ca il Secret Service lo fa sparire per metterlo a sicuro perché deve ga­rantire la continuità in caso capiti qualcosa di irreparabile a Bush. «Non sono d’accordo con quanti sostengono che l’11 settembre mi ha trasformato in uomo diverso’ ha ricordato – ma ammetto che assistere da un bunker all’attacco ha cambiato la percezione delle re­sponsabilità ». Un ruolo vero in un momento critico. Ben altro rispet­to a quando, nel giugno 2002, di­venta presidente pro tempore (ap­pena qualche ora): Bush doveva sottoporsi alla colonscopia. L’onda lunga delle Torri gemelle spinge in alto Cheney che per alcu­ni coordina e per altri dirotta la rea­zione degli Stati Uniti. Un’investitu­ra che accentua la riservatezza. Il suo staff ha l’ordine di triturare gli elenchi dei visitatori mentre i files delicati finiscono in una grande cassaforte. O forse in tre. Racconta­no che segua personalmente, insie­me a Rumsfeld, una delle prime missioni dei Predator, gli aerei sen­za pilota diventati l’incubo dei ter­roristi in Pakistan. Loro – i taglia­gole – provano a fargli la festa or­ganizzando un’azione kamikaze, nel febbraio 2007, durante una visi­ta alla base afghana di Bagram. Epi­sodi di una sfida che per molti esperti non si è mai chiusa comple­tamente.

I «meriti» di questa lotta a tutto a campo si trasformano in «colpe» dopo l’avvento di Barack Obama al­la Casa Bianca. Il giorno del giura­mento Cheney è al Campidoglio su una sedia a rotelle, messo fuori gio­co da un inatteso colpo della stre­ga. Un’immagine che sembra se­gnare il crepuscolo, al punto che il Senato del Wyoming vota una riso­luzione che augura all’uomo politi­co una felice vecchiaia, dove «ab­bandonati i fardelli pesanti possa dedicarsi alla pesca e alla scrittura delle sue memorie». Oppure alla caccia, attento a non ripetere il biz­zarro incidente che nel 2006 lo por­ta ad impallinare, per errore, un av­vocato. Un incidente miniera per battute. Obama lo prende in giro af­fermando che Cheney potrebbe in­titolare le sue memorie «Come spa­rare ad un amico e interrogare le persone».

Ma chi pensa ad un ritiro defini­tivo prende un abbaglio. Darth Va­der non ci pensa due volte a scen­dere nell’arena, prima ancora delle rivelazioni di queste ore. Un assal­to frontale alle scelte democratiche strappando applausi tra i demotiva­ti repubblicani. «Mi preoccupo – afferma – quando vedo che al go­verno c’è gente più interessata a proteggere i diritti di un terrorista di Al Qaeda che la sicurezza del po­polo americano». Non esclude che possa verificarsi un altro attentato devastante. Poi rammenta i bei tempi andati quando erano lui e Bush a decidere. Una nostalgia che potrebbe costargli cara.